SUBWAY

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All’inizio di Subway sembra di assistere all’ennesima pellicola tutta azione girata o prodotta in questi ultimi anni da Luc Besson: per cinque minuti buoni si sviluppa l’inseguimento di una piccola Peugeot dall’autostrada sino al centro di Parigi, direttamente nel metro.

Poi però ci accorgiamo che a guidare la scattante utilitaria è un giovane Christopher Lambert in versione ossigenata e che la pellicola ha già compiuto i 31 anni (è del 1985). E dobbiamo ricominciare da capo. Nei titoli di testa, che abbiamo guardato in un soffio prima di venire catturati dall’inseguimento, c’è una specie di gioco di citazioni in inglese di tre illustri personaggi il cui cognome inizia con la “S”. Tradotte suonano come: «Essere è fare», attribuita Socrate, «Fare è essere», a Sartre e «Fa re fa re fa», solfeggio di Sinatra Frank. Se fossimo stati attenti avremmo già cominciato a capire che di azione ce ne sarà pure, ma che verrà certamente accompagnata da una buona dose di ironia. Del resto Lambert sembra proprio divertirsi un mondo quando nei panni del misterioso Fred irrompe nella metropolitana sfuggendo a un gruppo di probabili guardie del corpo tutte agghindate come lui in smoking.

Ma che cosa è successo, perché l’inseguimento? Il fatto è che Lambert/Fred ha rapinato dopo una festa la casa della bella e annoiata Helena (Isabelle Adjani: affascinante, ma con terribili acconciature, la più incredibile delle quali definita “irochese”), sottraendo importanti documenti personali per i quali pretende un ingente riscatto. E che il marito di lei ha scatenato i suoi scagnozzi con l’ordine di farlo fuori. Ma Fred si è innamorato a prima vista di Helena e allora la storia aggiunge alla componente azione+ironia anche una nuova e particolare sfumatura romantica. Se è stato il caso a portare Fred nel metro, da quel momento il metro diventa il suo rifugio, un mondo sotterraneo e nascosto in cui sottrarsi a chi lo insegue e dove l’uomo può sentirsi libero di scorrazzare indisturbato. Un microcosmo popolato da personaggi bizzarri, come il Pattinatore (Jean-Hugues Anglade), inafferrabile ladro, il Fioraio (Richard Bohringer), altro stravagante delinquente, o la band di musicisti che si esibisce dove può, capitanata dal Bassista (Eric Serra, autore della ispiratissima e ritmata colonna sonora) e dal Batterista (un Jean Reno quasi irriconoscibile dietro baffetti e occhialini alla John Lennon). In un ambiente così particolare anche i poliziotti che vi lavorano non potevano essere normali. A un certo rigore tende l’insofferente commissario Gesberg (un monumentale Michel Galabru), una via di mezzo tra il Maigret di Simenon e un mastino scorbutico, mentre commovente nel suo ridicolo affannarsi per sgominare la micro delinquenza del luogo è la coppia soprannominata Batman e Robin (Jean-Pierre Bacri prima della caduta dei capelli e Jean-Claude Legas).

È a questo punto che finalmente si completa il quadro generale di Subway, una favola surreale e brillante, un perfetto mix in cui si intrecciano azione, ironia, sentimento e uno sguardo affettuoso verso un mondo di perdenti, ma non perduti, di personaggi che con il loro essere sanno rendere la vita diversa, non importa se piena di soldi o guidata solo dalla fantasia. Oggi tanto osteggiato dalla critica per la sua idea di cinema a pieno ritmo e scarso contenuto, Luc Besson ha saputo dimostrare in questo suo secondo film (dopo l’esordio nel 1983 con Le dernier combat) di possedere un’anima e una sensibilità particolari, senza per questo dimenticare le leggi del mercato. È importante quindi recuperarlo da parte nostra, anche perché era un titolo rimasto invisibile da qualche anno. Ma sarebbe bello per una volta che anche il regista riguardasse questa sua pellicola, potrebbe stimolarlo a tentare nuove avventure che forse lo riconcilierebbero con i suoi detrattori e lo restituirebbero di diritto all’olimpo del cinema d’autore.