UNA GENERAZIONE A OROLOGERIA

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È molto difficile, in un film come in qualsiasi racconto, far convivere credibilmente gli opposti: il riso e il pianto o l’allegria e la disperazione o la vita e la morte. Ci riusciva Chaplin e ci riuscì, origine del suo lungo successo, la commedia all’italiana. Ci è riuscito anche un prolifico cinema americano degli anni ’70 e ’80.

Quando la generazione della società affluente del boom raccontò tutta se stessa, senza veli. È il tempo di American Graffiti e di Animal House. Due film di grande divertimento, di straripante energia e però avvolti da un senso di morte, da una dimensione di fine incipiente. Non per caso quei due racconti di gruppi di ragazzi ubriachi della loro gioventù si concludono allo stesso, squassante modo. Nelle sequenze finali si racconta il destino dei protagonisti, la loro vita oltre il film. Come se un racconto fosse reale, come se quei personaggi fossero persone. E in ciascuno dei due qualcuno degli eroi per i quali lo spettatore si è entusiasmato, con i quali ha condiviso risate iconoclaste e senso di libertà, qualcuno di quei giovani miti è morto in una boscaglia vietnamita.

Capitò davvero a decine di migliaia di ragazzi americani mandati allo sbando per una guerra stupida, per una sconfitta annunciata e giusta, morti laggiù mentre partecipavano, comparse innocenti, a un conflitto che riuscì a uccidere milioni di soldati e civili vietnamiti. I ragazzi americani che erano cresciuti con Elvis e con i Beatles, con Hendrix e i Rolling, che speravano di non dover, come i loro padri, rischiare o morire in un continente lontano sapevano che sarebbe arrivato un giorno, finita l’adolescenza e strappata una laurea o un diploma, in cui la loro vita avrebbe conosciuto più il suono delle mitragliatrici che quello di You’ve got a friend. Per questo il cinema di quegli anni, spesso girato da giovani, racconta la vita di quella generazione come una ubriacatura a termine. Gioia da consumare in modo sfrenato, libertà da rovesciarsi sulla pelle a catinelle, frontiere da abbattere e muri da far esplodere. Tutto presto, tutto in fretta, prima che venga la notte vietnamita.

C’è un film, il mio preferito di quel tempo, che è un manifesto possibile di quella “gioventù bruciata”. Tanto lo è, consapevolmente, da contenere anche una citazione de Il gigante. James Dean fuggiva dalla sua solitudine generazionale, i ragazzi di Fandango scappano dal destino infame che l’insipienza di chi decide ha riservato loro. E ciò che li stordisce è che avrebbero, o almeno sentono di avere, il più bello dei mondi possibili a disposizione. Le ragazze non hanno più i capelli cotonati e le pruderie del tempo di Doris Day, il lavoro c’è, il mondo è a colori, come un’alba permanente. Ci sono due sequenze del film di Kevin Reynolds che non riescono a uscirmi dalla testa. Quella nel cimitero, trasformato dai ragazzi in un luogo di amore e gioco.

In una notte magica i giovani del film finiscono col giocare con dei fuochi d’artificio che illuminano e stravolgono il grigio e il nero di una notte in quel luogo. Ma quella luce scoppiettante finisce col rischiarare l’iscrizione di una tomba: quella del soldato Charles Solomon, nato nel 1952 e morto, diciannove anni dopo, in Sud Vietnam. Quella notte i ragazzi si chiederanno, guardando il cielo, se «esistono notti così in Vietnam», per rispondersi «lo scopriremo presto» E l’altra sequenza. Hanno spinto Phil, il più serio di loro, a salire su uno sballato aereo decorato di colori psichedelici e arredato con immagini dei Beatles e di Hendrix dal pilota, uno scombiccherato hippie. Hanno convinto Phil a provare un salto col paracadute. Però si accorgono che nel sacco che gli hanno dato ci sono solo vestiti. Allora da terra, con la calce e degli stracci, gli scrivono a caratteri cubitali NO GO. Ma basta che una ragazza passando sconvolga la geometria dei caratteri e la scritta diventa GO ON. Due parole che sono, in fondo, il senso di quella generazione allegra e disperata.