COSÌ LONTANI, COSÌ VICINI: “FURY” DI DAVID AYER E “I SACRIFICATI” JOHN FORD

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Cinema e guerra: cosa lega l’atteso Fury con Brad Pitt, in sala dal 29 gennaio, e il classico I sacrificati di Bataan di John Ford? Entrambi raccontano il secondo conflitto mondiale, ma a 70 anni di distanza. In tre punti, ecco cos’hanno in comune e cosa, invece, li divide

 

sacrificati
I sacrificati di John Ford

Apparentemente assai poco collega l’action-bellico Fury di David Ayer, in sala il 29 gennaio, al capolavoro I sacrificati di Bataan (o più concisamente I sacrificati (o più concisamente I sacrificati) che John Ford diresse nel 1945 -70 anni esatti dunque – con occhi e mente ancora scioccati dalla guerra da lui vissuta in diretta, visto che si arruolò e gestì una troupe di fotografi e operatori sul Pacifico e poi in Europa (da vedere tra gli altri il suo documentario La battaglia delle Midway). Anzi, per essere precisi firmò il film come John Ford Captain U.S.N.R..

Davvero 7 decenni sono tantissimi nell’ottica del vissuto, dei sentimenti, delle emozioni, dell’ideologia. E questo si vede subito, così come per inciso si notano il calore, l’empatia e la tensione irrisolta in American Sniper, in uscita ai primi di gennaio, di Clint Eastwood sulle imprese in Iraq di un cecchino leggendario dei Seals (ne parleremo però più diffusamente a parte, perché nel male come nel bene merita un approfondimento piuttosto articolato). Peraltro, differenze di qualità artistica a parte – quello di Ford, ribadiamo, è un capolavoro assoluto, quello con Brad Pitt troneggiante è un robusto e “onesto” (almeno in un certo senso) action ipergonfio che non nasconde la sua determinazione a fare soprattutto entertainment – stiamo parlando di due film di genere bellico di quelli “ortodossi” e, accostandoli, possiedono curiose assonanze-convergenze.

A cominciare dal concetto di “sacrificio” che sempre sembra motivare e innervare il comportamento dei soldati, almeno nei film più o meno giustificazionisti. I sacrificati in originale si intitola They Were Expendable (Essi erano sacrificabili) e parla dell’impresa di un PT, cioé una motosilurante Patrol Torpedo, una imbarcazione di piccole dimensioni su cui i gradi più alti della marina nutrivano seri dubbi sulla effettiva utilità, il cui equipaggio (guidato da Robert Montgomery – che fece veramente la guerra e girò tra l’altro alcune sequenze finali del film a causa di un malanno di Ford- e John Wayne) si coprì di gloria finendo peraltro quasi completamente sterminato durante la battaglia per proteggere la fuga delle truppe americane dalle Filippine. Un’autentica pagina di storia (il film è tratto dalle memorie di John Bulkeley).

Fury
Fury di David Ayer

Fury, che diversamente è quasi tutta fiction, ci racconta di una squadra in un carro armato Sherman (la guida il duro sergente “wardaddy” Collier ovvero Brad Pitt) dentro le linee nemiche tedesche in fuga ma non tanto, che si ritrova a un certo punto da sola circondata da un battaglione di nemici. Ma invece di ritirarsi, quei pochi si sacrificheranno nel nome della dovere, in un cruentissimo e spietato combattimento (in un certo senso ricorda quello finale, con debite proporzioni anche qui, di Il mucchio selvaggio di Peckinpah). Quindi ecco il motivo comune dell’eroismo sino alla morte del “piccolo” contro un nemico soverchiante.

Secondo punto, il valore del gruppo come teatro di caratteri e coesione cameratesca e in effetti i personaggi ne I sacrificati come in Fury si diversificano in particolari e popolaresche tipologie. Simile è inoltre la logica paternalistico-protettiva ma anche rude nei confronti delle reclute ultime arrivate e identico è lo spirito di corpo che unisce e unirà sino alla fine gente per molti versi tipologicamente e culturalmente agli opposti. Certo di diverso c’è che Ford ha idealizzato le forze armate americane e non si permette alcuna nota di disistima o appunto morale, Montgomery è un ufficiale responsabile e corretto, Wayne un animoso e più ruspante secondo, tutti perfettamente in regola con il modello positivo del soldato USA. Ayer (comunque ex militare e già sceneggiatore di war movies come U-571 o del simpatico delirante thriller Sabotage su una squadra speciale della DEA, di cui è anche regista) si concede maggiormente alla retorica degli anti-eroi sporchi e cinici, i suoi soldati sono quasi al limite del tracollo psichico, magari manifestano comportamenti anormali e qualcuno è pure un brutto ceffo, quello che li santifica sono l’efficienza e il sacrificio finale.

Terzo punto, l’alternanza-contrapposizione tra guerra e sentimento amoroso. La guerra è uno stato temporaneo e innaturale dell’uomo (sostengono sia Ford che Ayer, ma sarà poi vero?) e lo spazio dell’amore è lì per ricordarcelo. In Ford vibra la delicata love story tra Rusty/Wayne e l’infermiera Sandy/Donna Reed; in Ayer, in una cittadina tedesca occupata e quasi in macerie, è quasi una parentesi quella più ferina ma altrettanto sentimentale – nei limiti delle circostanze – tra la giovane recluta del gruppo (Logan Lerman) e una adolescente del posto.

Insomma, in 70 anni le logiche del genere tendono a non mutare. I meccanismi della partecipazione del pubblico attraverso l’identificazione delle gesta di un piccolo gruppo, inevitabilmente eroico e tipizzato pur nel contesto generale, sono sempre tenuti ben oliati. Per questo, a rimanere nella memoria del mito (cinematografico) sono proprio titoli di questo sotto filone (Prima linea, La grande fuga, Quella sporca dozzina, Il grande Uno Rosso, Salvate il soldato Ryan) che non gli affreschi di più ampio respiro (fa eccezione forse Il giorno più lungo, non Tora Tora Tora, La battaglia della Neretva o Il ponte di Remagen).

Massimo Lastrucci