ROMAFF11, “GOLDSTONE”: POLVERE E VENTO

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Ci sono poche cose spaventose come il vuoto assoluto, quello talmente grande e sconfinato da risultare pesante da portarsi dentro. Figuriamoci se quel vuoto non solo è interiore e indelebile, ma avvolge qualsiasi cosa giri intorno agli occhi, abbracciando persone, luoghi, natura. E, sembra, che il regista Ivan Sen, con Goldstone, voglia suggerirci proprio che quel vuoto possa sfociare, in un’aridità che intacca anche i cuori, oltre che l’infinito deserto australiano, al male puro, alla corruzione, all’annullamento dell’empatia.

Di padre croato ma di madre aborigena, Sen, che porta la sua Australia nelle vene (e nei film), torna così ad allargare la macchina da presa sulle enormi distese polverose dove le cittadine sono assemblate da sparuti container, nella quale, lentamente, vanno avanti miserabili esistenze. La storia della pellicola gira proprio attorno alla disgraziata Goldstone, inghiottita dal deserto e da una disumana tratta di prostitute asiatiche. Come spesso accade tutti sanno ma, tra mazzette di luridi soldi e torte di mele, nessuno storce il naso. Finché, a bordo del suo fuoristrada, arriva il detective Jay Swan – già protagonista dell’apprezzato Mistery Road, tanto che Goldstone ne è il suo ideale seguito –, incaricato di indagare sulla scomparsa di una ragazza. Jay, depresso, sporco, alcolizzato e, non per ultimo, di discendenza aborigena, si mette sulle tracce della giovane, incappando nei meccanismi di uno sputo di mondo in cui regna il nulla assoluto. Insieme a lui, e inizialmente non senza riserve, ci sarà anche l’ispettore locale, Josh, annoiato e grigio, almeno fino a quando non viene spinto ad aprire gli occhi.

Con Aaron Pedersen nei panni di Swan e Alex Russel in quelli di Josh (senza scordare la sempre eccellente Jack Weaver, già machiavellica matriarca nell’altro ”grande australiano” Animal Kingdom), Goldstone, dietro l’aspetto da western contemporaneo, nasconde anche un sottotesto che pizzica l’intimità – e le rispettive differenze – dei due protagonisti, entrambi alle prese con giganteschi vuoti. Se la storia scorre lenta (forse un po’ troppo) e i dialoghi sono di quelli dilatati e allungati (i silenzi fanno ancor più eco nel deserto ma rischiano di far smaniare chi ascolta), la regia di Sen non manca di stupire con diverse inquadrature, che vanno a ”spezzare” la quasi immobilità del film. Poi, ad alternarsi con la storyline principale, c’è l’aspetto antropologico: ovvero, cos’ha portato l’arrivo dell’uomo bianco in quelle terre dalla pericolosa bellezza e tra quella popolazione ancestrale? La risposta, come sempre, si perde nel vento.