Bertolucci al Bif&st, l’ultima volta che lo abbiamo incontrato: “Il mio cinema della creatività condivisa”

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Vi riproponiamo il racconto del nostro ultimo incontro con Bernardo Bertolucci, lo scorso aprile al Bif&st – Bari International Film Festival, dove ci ha raccontato il suo cinema e il suo amore per i suoi attori e la sua troupe.

 

La giornata conclusiva del Bif&st si è aperta e si è chiusa nel segno di Bernardo Bertolucci. Dopo la proiezione mattutina di Strategia del ragno, il grande regista è salito sul palco del Petruzzelli, accolto dalla calorosa ovazione di un pubblico che ha stipato il teatro in ogni ordine di posti, per una Masterclass condotta da David Grieco, regista, sceneggiatore, attore e giornalista, oltre che assistente sia dello stesso Bertolucci che di Pasolini. In serata, Bertolucci – premio Oscar per la regia e la miglior sceneggiatura non originale per L’ultimo imperatore, che nel 1988 collezionò nove statuette in tutto – ha ricevuto dalle mani di un altro premio Oscar, Giuseppe Tornatore, il Fellini Platinum Award, a cui è poi seguita la proiezione in anteprima internazionale di Ultimo tango a Parigi nell’edizione restaurata in 4K dalla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il restauro del film, che tornerà in sala distribuito in 120 copie dal 21 maggio, è stato curato da Vittorio Storaro per la fotografia e da Federico Savina per il sonoro.

Nel corso della masterclass Bertolucci si è soffermato in particolare sugli aspetti creativi del suo lavoro di regista e sull’importanza di generare sul set un clima empatico condiviso dal cast artistico e tecnico.

«Io devo poter amare qualcuno perché la mia macchina da presa possa andargli vicino», ha detto. «In realtà, il momento delle riprese è quello in cui i personaggi escono dalle pagine scritte della sceneggiatura e prendono corpo, carne e sangue, un ritmo nel muoversi e nell’occupare lo spazio. Per ottenere il meglio dalle persone davanti alla macchina da presa ho bisogno di poter comunicare e farli partecipare al processo creativo. Hitchcock una volta disse che gli attori per lui erano solo “bestiame”, voleva creare un’aura attorno a sé. Per me invece gli attori sono “bestiame” prezioso».

Attori che Bertolucci sceglie affidandosi alla sua particolare sensibilità. «Quando ho davanti qualcuno per il casting – ha spiegato – capisco subito se andrà bene o no. Se vedo del mistero, dei segreti, questo già mi indirizza verso quella persona. Perché poi il film è la creazione del personaggio, il dargli corpo con quelli che sono i misteri dell’attore che lo interpreta. Il materiale umano che ho davanti si mescola così al personaggio scritto. Nei miei film c’è sempre la guida della verità delle persone. Un’altra cosa che faccio prima di girare è portare gli attori a vedere o conoscere ciò che mi ha ispirato. Per esempio, prima di iniziare le riprese di Ultimo tango a Parigi, c’era una grande mostra di Francis Bacon, che al tempo non era ancora famoso. Ci portai a vederla Marlon Brando, Vittorio Storaro (anche lui protagonista di una bellissima Masterclass, Nda), lo scenografo Ferdinando Scarfiotti e la costumista Gitt Magrini perché guardassero i suoi ritratti – che poi abbiamo messo nei titoli di testa del film – e questo creò una “comunione” con loro».

Bertolucci ha poi spiegato la teoria della “porta aperta”, una suggestione avuta dal grande Jean Renoir. «In America i film si girano sempre con lo story board, ogni inquadratura è già disegnata. Questo permette alla produzione una fluidità forse maggiore sul piano industriale, io invece non so che cosa farò il giorno dopo. Uno di coloro che considero tra i più grandi registi della storia del cinema, Jean Renoir, figlio del grande pittore impressionista, una volta mi disse: “Ricordarti che bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set, perché non si sa mai chi o cosa può entrare”. È questa la bellezza del cinema, e ho capito che questa “porta aperta” era quello che facevo io: realizzare film con questo dialogo con gli attori, permettere attraverso lo spiffero di realtà vera che entra sul set di generare un ambiente ancora più favorevole alla creatività, non solo la mia, ma di tutti i collaboratori».

Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci

Non è mancata una frecciata diretta al perbenismo farisaico di certa Hollywood. «Non mi è mai successo, ma non so come farei a lavorare con un attore che mi venisse imposto dalla produzione, cosa che succede anche a registi importantissimi. Per esempio a Ridley Scott, che ha dovuto cancellare tutte le scene di Kevin Spacey da Tutti i soldi del mondo (rigirandole con Christopher Plummer, Nda) dopo lo scandalo in cui è stato coinvolto. Ho provato un po’ di vergogna per il regista, che malgrado il suo grosso potere contrattuale con Hollywood ha dovuto sottostare a questa costrizione. Per reazione mi è venuto subito voglia di fare un film con Kevin!».

Una riflessione anche sul Sessantotto e la sua eredità. «Allora avevo già 27 anni, ero diverso dai ventenni che protestavano, ero più grande. Io credo che se c’è stato Ultimo tango a Parigi è anche grazie al Sessantotto, che ha aperto una grande porta. Se non ci fosse stato non so se sarei riuscito ad andare così lontano nella libertà di fare film. Il ‘68 è stato qualcosa di straordinariamente fresco, c’era quasi un bisogno fisiologico di svecchiare il “cinema di papà”. Noi lo facevamo con la macchina da presa, altri con la letteratura. Il ‘68 è stato la straordinaria elaborazione collettiva di un sogno: quello di cambiare il mondo, dell’immaginazione al potere, del proibito proibire».

Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci

E infine, un aneddoto del sul suo primo incontro con Pier Paolo Pasolini e un ricordo dei primi passi compiuti come suo assistente. «Pasolini era un amico di mio padre. Il primo incontro con lui fu a 14 anni. Una domenica suonarono alla porta di casa, a Roma, io aprii, lui si presentò e io lo lasciai lì sul pianerottolo, chiudendogli la porta in faccia. Andai da mio padre a dirgli che c’era un tale che chiedeva di lui, che aveva un’aria strana e si chiamava Pasolini. E mio padre: “Ma come, è un grande poeta! Fallo entrare subito!”. Qualche anno dopo Pierpaolo scrisse la poesia A un ragazzo (dedicata a proprio a lui, Ndr) in cui parlava di suo fratello partigiano, che era partito con un libro di Montale e una pistola nella valigia. La poesia finisce con due versi che dicono così: “Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, finirà non chiesto, si perderà non detto”. Parlava di qualcosa di molto doloroso per lui. Anni dopo un giorno mi propose di fargli da aiuto regista, ma io non ero mai stato sul set. E lui: “Ah, neanch’io!”. E infatti fu molto bello preparare Accattone, fare i sopralluoghi nelle borgate, che Paolo conosceva bene. Ogni giorno, visto che abitavamo nella stessa casa, salivo sulla sua Giulietta e andavamo sul set. Lui era scherzoso, mi raccontava pezzi di sogni che aveva fatto. Poi vidi nascere altre opere. Lui come modelli non aveva i registi della Nouvelle Vague, ma La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, con i suoi primi piani. Ricordo l’emozione del giorno in cui mise la macchina da presa sulle ruote per una carrellata: andava contro il suo stile, perché lui diceva di voler ricordare i Primitivi toscani, le feste dei Santi, che per lui erano le feste dei barboni, degli accattoni».

Un lungo, interminabile applauso ha concluso l’incontro più emozionante di questa edizione del Bif&st, manifestazione che, con i suoi 75mila spettatori in otto giorni di programmazione e con la partecipazione massiccia di giovani, è diventata anno dopo anno uno degli appuntamenti più importanti del panorama nazionale.

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