I leoni di Sicilia, Paolo Genovese: «Una storia d’amore e coraggio»

Paolo Genovese racconta a Ciak il suo kolossal in costume: "L’ho vissuta come un’opera prima"

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Paolo Genovese
Ph. credit: Maria Marin

Amore, famiglia, successi, persino una rivoluzione nella Palermo di inizio ’800, teatro dell’ascesa di una famiglia calabrese di origini umili che si affaccia a quella grande città proprio mentre gli equilibri sociali cambiano e la borghesia delle imprese e dei commerci inizia a incalzare l’aristocrazia, decaduta ma ancora piena di fascino. Lo racconta I leoni di Sicilia, la nuova serie di Disney+ in otto puntate tratta dal best seller di Stefania Auci.

È un kolossal in costume, voluto dalla sede italiana della Major, la stessa che ha vinto a Berlino 2022 l’Orso d’oro delle serie con The Good Mothers, e affidato a Leone Cinematografica e Lotus. La prima parte è disponibile dal 25 ottobre sulla piattaforma, mentre i restanti quattro episodi sono approdati il 1° novembre. Narra la storia della famiglia Florio: i fratelli Paolo e Ignazio, piccoli commercianti di spezie, fuggono dalla Calabria in cerca di riscatto e in Sicilia s’inventano un futuro. Sarà Vincenzo, il giovane figlio di Paolo, con le sue idee rivoluzionarie, a trasformare la loro piccola impresa in un impero. E a travolgere la sua vita, e quella dell’intera famiglia, è l’arrivo di Giulia, una donna intelligente e in guerra con le rigide regole del tempo.

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Ricchissimo il cast: Michele Riondino è Vincenzo Florio, Miriam Leone interpreta Giulia Portalupi, Donatella Finocchiaro è Giuseppina, Vinicio Marchioni dà vita a Paolo Florio, Paolo Briguglia a Ignazio, Eduardo Scarpetta è il figlio Vincenzo. «Nel complesso, sono oltre cento gli attori impegnati», spiega Paolo Genovese, regista e produttore creativo, e al suo ritorno alla guida di una storia seriale dopo tanti anni di cinema e di successi raccolti in tutto il mondo. Lo abbiamo incontrato.

Ritorni alla serialità.

In realtà l’ho vissuta come un’opera prima, impegnativa e affascinante non solo per la durata, ma anche per la rilevanza della storia e della produzione. Molti anni fa avevo diretto assieme a Luca Miniero Viaggio in Italia – Una favola vera, scritta da altri, ma allora la serialità aveva un peso diverso. Poi ne ho scritte e supervisionate due, tra cui la recente Tutta colpa di Freud, che però non ho diretto. È questa la prima serie davvero mia nel nuovo corso della serialità. Ha richiesto un approccio mentale e creativo nuovo.

Raccontacelo.

È stata anche la mia prima vera opera d’epoca, a parte qualche spot pubblicitario nel passato. Quando giri in costume, per fare un buon lavoro devi calarti completamente nel mondo che racconti. Ho visto Palermo con gli occhi, gli usi e i costumi delle persone di quel periodo. È una delle meraviglie del cinema: ti fa viaggiare nel tempo. La difficoltà è semmai mantenere la concentrazione per 24 settimane. È stato insieme faticoso e stimolante. Lo rifarei domani.

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L’impressione è di uno sforzo artistico enorme. Negli studi alle porte di Roma avete ricostruito persino un piccolo quartiere della Palermo dell’epoca.

Se vuoi essere credibile, devi portare non solo il problema degli abiti, ma anche quello del cibo, dell’illuminazione, del modo di parlare e di relazionarsi con gli altri. A quell’epoca c’erano lampade a olio e candele, si gesticolava meno, si restava fisicamente più distanti e le differenze di comportamento tra esponenti di classi sociali diverse erano più accentuate. Ci abbiamo lavorato tanto, per evitare il rischio di stonature.

Poi ci sono oltre cento attori da istruire.

Devi riuscire a trasmettere a tutti l’importanza delle differenze tra allora e oggi, anche a chi fa solo due pose. Ma sono stato fortunato a lavorare con grandi professionisti. Abbiamo avuto tre gruppi di interpreti: i personaggi storici realmente esistiti, il cui modo di parlare, muoversi e interagire è stato ricostruito con un lungo lavoro di documentazione. I protagonisti della prima fase della famiglia Florio, povera e che incontra la ricchezza, adeguandosi progressivamente. E poi Vincenzo e Giulia, di cui raccontiamo 60 anni di vita, con un grande lavoro anche sull’invecchiamento, del quale sono molto soddisfatto. Il segreto è prepararsi al meglio. Anche perché non giri in modo cronologico e i protagonisti devono entrare e uscire da situazioni e addirittura epoche diverse. Michele e Miriam sono stati bravissimi anche in questo: man mano più lenti nei movimenti, più chiusi nei caratteri, con più familiarità tra loro.

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Quando si immagina una grande storia ottocentesca siciliana viene in mente Il Gattopardo di Luchino Visconti. È successo anche a te?

Certo, ma l’anima e il punto di vista de Il Gattopardo sono diversi. Quella di Tomasi di Lampedusa raccontata nel meraviglioso film di Visconti è una storia più politica, anche nell’ambientazione. Si concentra sui fermenti sociali. Ne I Leoni di Sicilia quell’800 pieno di tensioni è soprattutto il background, che avvolge una grandissima vicenda d’amore. È una storia sulle persone, non con le persone. Quella di due individualità forti, e della loro voglia di farcela. L’incontro tra Vincenzo Florio e Giulia Portalupi potrebbe accadere oggi. Ciò che racconta Il Gattopardo, invece no.

La saga dei Florio non si esaurisce nelle otto puntate de I leoni di Sicilia. E la serie?

È vero, c’è un secondo romanzo. Vedremo come verrà accolta questa prima stagione dal pubblico, poi spetterà a Disney decidere. Il bello delle serie è che la scelta di realizzare una prima stagione è nella sensibilità di un produttore che ne intuisce le potenzialità. Mentre la seconda in realtà la decide il pubblico.

Nel frattempo? Lavori a un nuovo film?
Sta per uscire il mio nuovo romanzo, Il rumore delle cose nuove. L’ho scritto negli ultimi tre anni. Magari diventerà anche un film.

Ne hai meno voglia? Colpa della situazione difficile del nostro cinema?

È un momento di transizione abbastanza difficile. Nei prossimi due o tre anni capiremo quale sarà davvero il futuro del cinema e del nostro in particolare. Il cambiamento è stato rapidissimo. Il calo di spettatori in sala è un dato di fatto. Le cose migliorerebbero se si curasse la cultura del cinema sin dalle scuole. Mi capita di andarci a parlare ai ragazzi, e se trovi il linguaggio e i paragoni giusti, rispondono entusiasti. In ogni caso, il pubblico dobbiamo meritarcelo. Con una storia ben girata, una sala accogliente e una tecnologia almeno all’altezza di quelle che ormai molti hanno in casa. Altrimenti perché uscire per andare a pagare il biglietto?