Rita Hayworth, 100 anni fa nasceva la diva che incarnò il glamour e la femminilità della Hollywood degli anni ’40

0
Gilda

Le prime grandi seduttrici star del cinema degli anni Venti-Trenta, quali Louise Brooks, Greta Garbo, Marlene Dietrich avevano stabilito un rapporto “a cuore freddo” con lo spettatore, che le idolatrava quanto più a lui apparivano distanti,
trasfigurando il loro algido sex appeal in un effetto di seduzione per contrasto.
Rita Hayworth (nata a Brooklyn, NY, il 17 ottobre 1918) è stata la prima diva a porsi in maniera antitetica, proponendosi come puro corpo, manifestazione di una femminilità diretta, carnale, senza ambiguità, finanche “volgare” nel senso migliore del termine, non nascondendo né la sua forza né la sua fragilità di donna.

Gilda

Illuminata dal grande Rudolph Maté, fasciata di raso nero, Rita offriva nel film che la condusse al vertice della fama, Gilda (Charles Vidor, 1946), una danza sovrasensuale soltanto sfilandosi un guanto. Vidor realizzò uno dei primi piani più famosi della storia del cinema nella scena in cui George Macready le chiede: «Sei presentabile?», e lei, rovesciando la testa all’indietro, risponde: «Chi, io?», infiammando con uno sguardo prolungato Glenn Ford, per poi aggiungere con un’espressione che può essere indifferentemente soddisfatta, annoiata o stupita: «Lo sono più del necessario!».

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

“If I’ve been a ranch, they would name me ‘the bare nothing’ “! #coolfeelings #ritahayworth #star #hollywood

Un post condiviso da Rita Hayworth (@rita_hayworth) in data:

Anche nel successivo Gli amori di Carmen (Charles Vidor, 1948), Hayworth ripropose il personaggio della donna dilaniata tra un’esuberante energia vitale e sessuale e una sorta di morboso fatalismo che la spingeva verso l’abisso. E chi se non lei avrebbe potuto meglio interpretare Salomè (William Dieterle, 1953), ove si cimenta nella più famosa danza dei sette veli dinanzi a un turbatissimo Charles Laughton nei panni di Erode? Soprannominata l’Atomica, la Dea dell’Amore, Ruggine, dal colore fulvo della sua chioma, figlia d’arte (la madre, irlandese, era una ballerina di Ziegfeld, il padre, spagnolo, un maestro di danza), Margarita Carmen Cansino (questo il suo vero nome) debuttò a tredici anni in un night-club messicano come baiadera.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

“I wasn’t born a redhead. I was born to be a redhead”.

Un post condiviso da Rita Hayworth (@rita_hayworth) in data:

A 17 anni la 20th Century Fox le propose piccoli ruoli di donna latina, ma la notorietà arrivò solo nel 1941, quando fu Bionda fragola diretta da Raoul Walsh. Il presidente della Columbia, Harry Cohn, inventò il suo nome d’arte aggiungendo una “y” al cognome della madre, Haworth. Nello stesso anno Rita ricoprì il ruolo della maliarda Doña Sol in Sangue e arena di Rouben Mamoulian: notevole la scena in cui stringe il capo di Tyrone Power al seno indossando una camicetta bianca trasparente con sotto un reggipetto rosso fuoco.

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

#Ritahayworth #orsonwelles and their baby, Rebecca Welles

Un post condiviso da Rita Hayworth (@rita_hayworth) in data:

Poi, dopo il formidabile La signora di Shanghai (1947) di Orson Welles, allora suo marito, non furono tanti e tutti memorabili i film a cui partecipò (tra i migliori Trinidad, 1952, di Vincent Sherman, Pioggia, 1953, di Curtis Bernhardt, 1957, Pal Joey, 1957, di George Sidney, Tavole separate, 1958, di Delbert Mann, Il circo e la sua grande avventura, 1964, di Henry Hathaway, che le valse la candidatura al Golden Globe) e né Hollywood né la vita – tra matrimoni falliti, vicissitudini familiari, problemi di alcolismo e una malattia invalidante (l’Alzheimer) – furono molto generose con lei.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Rita Hayworth (@rita_hayworth) in data:

Ricordiamo a fine carriera la sua presenza ne I bastardi (1968) di Duccio Tessari: doppiata da Andreina Pagnani, Rita beve “whisky annacquato”, interpreta la mamma (ballerina alcolizzata) di Giuliano Gemma e gli chiede: «Non sono una
bella madre?… Ero bella una volta…»; «Sì, e lo sei ancora», le risponde, laconico,
Gemma, mentre lei abbassa lo sguardo, sorridendo. Aveva capito che il compito
di una diva era quello di imprigionare il reale nella pura ripetizione di alcuni segni riconoscibili, una danza, uno sguardo, uno schiaffo, un cuore che cerca solo il grande amore, cose tutte che una volta trasformate in simulacri non si consumano e né la vecchiaia né il tempo riescono a corrodere. Forse, girando questa scena, divenne consapevole della sua immortalità.