Oliver Quick, un giovane studente universitario, cammina completamente nudo all’interno di una tenuta di campagna del XVIII secolo nell’Oxfordshire, in Gran Bretagna. Una scena che la scrittrice e regista di Saltburn − su Prime Video dal 21 dicembre – ha diretto per undici volte prima di arrivare al take che rendesse giustizia a un film «così gotico, così barocco, così sopra le righe». Sebbene i primi sette tentativi fossero impeccabili, mancava un Je ne c’est quoi. Cioè la sensazione di liberazione estatica, della gioia di un trionfo. Da qui l’idea che il protagonista, interpretato da Barry Keoghan, ballasse tra le stanze del maniero aristocratico sulle note di Murder on a Dancefloor in un lungo e dettagliato piano sequenza. Per Emerald Fennell infatti, ogni movimento della macchina da presa racconta qualcosa del personaggio più che essere un puro esercizio estetico. Ogni cosa, a prescindere da quanto esagerata o eccessiva, ha un valore emotivo.
Saltburn racconta l’estate trascorsa da Oliver nell’enorme tenuta dell’amico Felix. Saloni, giardini, soffitti affrescati. Quale ruolo ha avuto una casa di questo tipo
Il tema del film è il guardare e l’essere guardati. Una casa enorme è la metafora di occhi invisibili. Volevo che la sensazione fosse quella di essere sempre osservati, di dover fare attenzione ai propri comportamenti. Quella di un comfort apparente che in realtà nasconde un giudizio costante e spaventoso.
E il modo in cui è allestita?
Ho scelto Suzie Davis come production designer perché cercavo qualcuno che come lei riuscisse a notare le cose che stonano. Ho un’ossessione per i dettagli inquietanti e strani: la cenere caduta fuori dai posaceneri, gli ambienti un po’ consumati, le atmosfere alla Peter Greenaway, la pacchianeria.
Le ambientazioni, i personaggi e le tematiche ricordano il film Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella e il romanzo Dio di Illusioni di Donna Tartt. Quali riferimenti cinematografici e letterari le sono stati di ispirazione nello scrivere la storia?
Sono sempre stata affascinata dalla tradizione gotica britannica, da Cime tempestose, a Dracula e Rebecca (romanzo gotico del 1938 scritto dall’autrice inglese Daphne du Maurier, ndr). Tutti questi libri hanno dato vita a film sublimi. C’è una particolare nicchia che mi piace definire “è successo qualcosa in una casa di campagna britannica un’estate e nessuno ha mai smesso di parlarne”. Quel genere un po’ Ritorno a Brideshead (romanzo dello scrittore inglese Evelyn Waugh, ndr), un po’ Gosford Park (film del 2001 di Robert Altman, ndr). Volevo scrivere qualcosa sul desiderio, sull’amore, sull’innamoramento in giovane età, su quanto sia totalizzante.
Su quanto sia anche dannoso?
Sì, soprattutto oggi che passiamo la vita sui social media a guardare altre persone e altre cose e a desiderarle.
Cosa le interessava di questo aspetto?
Mi interessava perché è qualcosa che provoca disgusto verso noi stessi. C’è questa tensione tra il desiderio e la ripugnanza. È una dinamica interessante perché è un’ossessione molto complicata: siamo come prostrati di fronte a qualcosa, la vogliamo ma vogliamo anche distruggerla.
Come ha approcciato la visione estetica del film?
Ho scelto il direttore della fotografia Linus Sandgren perché è indubbiamente un genio e il modo in cui parla e pensa alle cose è molto simile al mio. Condivide il mio feticismo per la bellezza, ma anche per le cose reali e radicate. Quando ci siamo parlati mi ha chiesto: «Quali parole ti vengono in mente quando pensi a questo film?». Pensavo fosse una specie di gioco e ho risposto: «Bagnato». Poi ho aggiunto: «Vampiro». Lui ha detto: «Ho capito. Non aggiungere altro».
Che motivazioni l’hanno portata alla scelta del formato 4:3?
Motivazioni pratiche. Si trattava di lavorare con la casa che è molto squadrata, non volevamo tagliare i soffitti dipinti. Abbiamo discusso molto dell’arte di Caravaggio, del suo uso della luce, dell’inquadratura formale, dei dipinti di Thomas Gainsborough e della ritrattistica inglese. Archie Madekwe e Jacob Elordi poi sono straordinariamente alti e ciò ha fatto sì che le proporzioni fossero facilitate da questo formato.
A proposito di Jacob Elordi, era lui il Felix Catton che aveva in mente quando ha scritto il personaggio?
Jacob ha fatto un provino che ci ha lasciati a bocca aperta. È stato l’unico a fare quello che cercavo: un uomo vero, un Dio che in realtà è un po’ mortale. Anche un po’ noioso, che viene quasi da chiedersi se la gente si sarebbe avvicinata a lui se non fosse stato così bello e ricco.
E il resto del cast?
Richard E. Grant ha fatto il film Come fare carriera nella pubblicità e la sua è una delle mie interpretazioni preferite di sempre. Demenziale, deliziosa e intensa. Lui ha questa capacità di essere caloroso e struggente ma anche dannatamente spaventoso. Ed è quello che mi serviva per il suo personaggio, Sir James. Rosamund Pike è la più grande attrice della nostra generazione. Quando ha letto le sue battute durante le prove, ho sentito il sospiro di ammirazione di tutti i presenti. Paul Rhys è incredibile e il suo personaggio, Duncan il maggiordomo, è l’incarnazione della casa. La sua è una delle interpretazioni più dettagliate, più ricche e affascinanti.
Perché ha scelto di ambientarlo nel 2006?
Affinché un protagonista possa dire che la sua vita è cambiata in modo irrevocabile, è necessario dare un senso di distanza temporale. Il 2006 è stato l’ultimo anno in cui si poteva fumare all’interno e non c’è nulla più di questo che ti faccia pensare: «Oh, questo film è ambientato un bel po’ di tempo fa se potevano ancora accendersi una sigaretta in un luogo pubblico al chiuso». Inoltre la moda di quegli anni toglieva un po’ di fascino alla vicenda, non c’è niente di più pateticamente umanizzante di un tatuaggio Carpe Diem o di un paio di jeans Carhartt con taglio a stivaletto. Questo ha aiutato il mio desiderio di creare un equilibrio tonale tra l’orrore e la commedia, tra la sporcizia e la mondanità.
Cosa vuole che le persone traggano dal film?
Spero che la discussione si faccia chiassosa. Mi piace quando si discute, si litiga, quando non si è d’accordo. Inoltre spero che nulla sembri inverosimile. Voglio dire, non penso che tutti abbiamo fatto le cose assurde che si vedono nel film, ma di certo tutti conosciamo la mortificazione che il desiderio porta.