Era il 20 aprile 1984 quando uscì in Italia Scarface, gangster movie che prende ispirazione dal classico del 1931 diretto da Howard Hawks e prodotto da Howard Hughes, film a sua volta tratto dall’omonimo romanzo di Armitage Trail del 1929, una sorta di instant book sulla figura di Al Capone, boss della mala di Chicago negli anni del Proibizionismo la cui carriera, mestamente chiusasi in carcere con una banale condanna di evasione fiscale, ha nel corso degli anni affascinato molti registi.
Brian De Palma è sicuramente tra questi
Uno che di gangster movie se ne intende. Bastano tre titoli. Gli intoccabili, che racconta proprio la storia dell’arresto di Capone grazie alla task force organizzata da Elliot Ness. Film epico, per cui Sean Connery vinse l’unico Oscar della sua onorata carriera, che nel 1987 fece aumentare a dismisura le già alte quotazioni del divo Kevin Costner, costellato di scene magnifiche, tra cui la sparatoria della stazione (citata apertamente anche da Stefano Sollima nella scena finale di Adagio).
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Sei anni dopo Carlito’s Way, la storia del gangster stanco e dal cuore intenerito dall’amore della spogliarellista Gail (Penelope Ann Miller in uno di quei ruoli che vale una carriera), chiude di fatto la trilogia iniziata proprio con Scarface. Al Capone viene sostituito da Tony Montana, criminale cubano spedito da Castro in Florida su un barcone insieme ai molti altri reietti che il Leader Maximo non voleva nelle sue carceri e tantomeno nella sua isola.
È il 1980, la fine della presidenza Carter e l’inizio del regno repubblicano di Reagan e Bush padre, durante il quale oltretutto si sarebbe alzata la guardia nei confronti del traffico di stupefacenti sul territorio statunitense, soprattutto nei confronti della cocaina che arrivava dai paesi dell’America Latina e che aveva come primo approdo Miami, città del vizio che di lì a poco avrebbe narrato anche Michael Mann nella serie tv con protagonisti i detective fashion in Ferrari Sonny Crockett e Ricardo Tubbs.
La genesi di Scarface la si deve al suo protagonista
Al Pacino, che innamoratosi della versione originale era convinto che un remake avrebbe avuto sicuro successo, salvo poi essere edotto che rendere la storia contemporanea fosse la scelta più giusta. L’ambientazione e la provenienza di Tony nascono invece da un’idea di Sidney Lumet, che avrebbe inizialmente dovuto dirigere il progetto. Questo spunto viene colto al volo da Oliver Stone, che non chiedeva di meglio che allontanarsi dall’idea originale, non essendo un grande amante né del film e tantomeno del romanzo. Stone era all’epoca uno degli sceneggiatori più caldi di Hollywood, vincitore di un Oscar per lo script di Fuga di mezzanotte, diretto da Alan Parker e basato sulla vera storia di un americano finito in un carcere turco per traffico di droga.
Parlando di stupefacenti
Stone aveva un rapporto strettissimo con la cocaina all’epoca e le montagne di polvere bianca in cui si immerge Tony Montana nella scena finale del film sono il suo personalissimo esorcismo nei confronti della sostanza, da cui era riuscito a emendarsi proprio subito prima di mettersi alla scrittura. Intanto a dirigere il film era stato chiamato Brian De Palma, sulla cresta dell’onda dopo i successi di Carrie e Vestito per uccidere, e fu proprio lui a scegliere Stone per la sceneggiatura. La presenza di De Palma in regia porta al film un gusto barocco che unito agli eccessi che infonde Stone alla storia danno al film un tono unico.
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L’epopea di Tony Montana è l’American Dream tirato su per il naso, in cui l’uomo che voleva conquistare Miami e poi il mondo è solo una pedina manovrata da giocatori molto più grandi di lui a cui è impossibile fare la guerra. Come tutto quello che ha scritto Stone, è un film fortemente, e volendo anche ingenuamente, politico e critico nei confronti delle connivenze che il governo USA aveva con molti stati dell’America Latina.
Ma quello che certamente resta più impresso è la maestosa interpretazione di Pacino, eccessiva, sopra le righe, l’altra faccia della medaglia di Michael Corleone. Il capo famiglia freddo e calcolatore lascia il campo a uno psicopatico cocainomane con una predilezione carnale per la giovane e bellissima sorella (interpretata da una praticamente esordiente Mary Elizabeth Mastrantonio).
Tony Montana è un mostro
Male incarnato, con un codice d’onore tutto personale e sempre pronto a essere modificato in funzione dei suoi desideri o, meglio ancora, delle sue paranoie. Tutto ciò che tocca marcisce, a partire dall’amicizia con il sodale Manny e il matrimonio con Elvira, che strappa al suo boss dopo averlo ucciso. Eppure, nonostante tutto, la figura di Tony Montana è diventata nel corso degli anni oggetto di culto per i milioni di estimatori di questo film che ebbe naturalmente vita non facile.
Bollato in patria con la X che contraddistingue di solito i prodotti pornografici, Scarface fu generalmente demolito dalla critica, anche italiana, salvo avere una forte revisione di giudizio nel corso degli anni. La ragione stava soprattutto nel fatto che De Palma aveva messo insieme un’opera di una modernità stordente per l’epoca, esplicita, violenta, rapidissima nel montaggio, uno dei capolavori di Gerry Greenberg, che di gangster se ne intendeva avendo lavorato come assistente in precedenza al Bonnie and Clyde di Arthur Penn e curando poi il montaggio de Il braccio violento della legge di Friedkin, per cui vinse naturalmente l’Oscar (per inciso, Greenberg fece anche parte del team di montaggio di Apocalypse Now, così, per dire).
Contrappunto di tutto la colonna sonora, ipnotica, di Giorgio Moroder, il re Mida della musica da film di quegli anni. E poi la presenza dell’angelo caduto Michelle Pfeiffer nei panni di Elvira, fasciata dalle creazioni della sei volte candidata all’Oscar Patricia Norris che decide di vestirla con abiti sottoveste con spacchi e scollature che diventarono un trend nella moda di quegli anni e che amplificavano la carica sensuale dell’attrice, all’epoca delle riprese appena ventiquattrenne e con alle spalle il ruolo da protagonista nell’infausto Grease 2, film che avrebbe ucciso la carriera a chiunque. Ma non a lei.
Rivedere in sala questo gioiello, nella versione restaurata in 4K che Lucky Red presenterà l’8, 9 e 10 aprile, è una di quelle occasioni da non perdere, per poter godere a pieno di un film entrato ormai nella storia del cinema.
Spigolature di Scarface
Tanto per cominciare, nonostante il progetto fosse partito da Pacino, la parte fu offerta a un certo punto a Robert De Niro, che però rifiutò. De Palma lo avrebbe avuto come Scarface vero pochi anni dopo, quando lo volle per interpretare Al Capone (sempre un Al di mezzo) ne Gli intoccabili.
Anche Michelle Pfeiffer non era la prima scelta.
Doveva essere infatti Glenn Close a interpretare Elvira, in quegli anni attrice in vertiginosa ascesa, e proprio l’essere molto richiesta fece sì che dovette rinunciare alla parte (per Il grande freddo, direi che disse bene un po’ al mondo intero). Prima di arrivare a Michelle si provinarono anche una giovane Geena Davis, Kim Basinger, Carrie Fisher, Kelly McGillis, Melanie Griffith e Sigourney Weaver. Incredibilmente, né Pacino né De Palma volevano Michelle Pfeiffer, fu il produttore Martin Bregman a imporla. Piccola lezione su quello a cui servono i produttori: quelli bravi rendono i film immortali.
Chi invece non ebbe problemi fu Steven Bauer
Unico vero cubano della partita. Bauer non venne neanche provinato, appena entrò nella stanza tutti capirono che avevano trovato Manny. Sul set oltretutto fu di grande aiuto a Pacino con il dialetto e l’accento cubano, affiancando il dialect coach di produzione.