Totem – Il mio sole. La recensione del film di Lila Avilés

Premiato alla 73ma Berlinale e designato dal Messico per gli Oscar 2024, il film (in sala dal 7 marzo per Officine Ubu) è un delicato dramma familiare incentrato sulla piccola Sol e la festa per il padre malato.

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«La vita e la morte sono una dualità, proprio come saggezza e ignoranza, dentro e fuori, giorno e notte, sole e luna, luce e oscurità, yin e yang», ci ricorda Lila Avilés, regista di Totem – Il mio sole, dal 7 marzo nelle nostre sale per Officine Ubu dopo aver rappresentato il Messico nella corsa agli Oscar 2024 e fatto incetta di riconoscimenti in giro per il mondo, non ultimo il Premio della Giuria Ecumenica in concorso alla 73ma Berlinale. Che essere vivi e non esserlo più siano due realtà indissolubilmente legate è la consapevolezza con cui la piccola Sol (Naíma Sentíes), sette anni, dovrà faticosamente venire a patti mentre un cancro sta progressivamente portandosi via suo padre.

Ma, come altri titoli di un cinema contemporaneo che guarda alle sfumature dolceamare della sfera privata e ai minimi dettagli e spostamenti della quotidianità per affrontare i grandi, irrisolti e forse irrisolvibili nodi dell’esistenza (pensiamo ai film di Uberto Pasolini, al sino-americano The Farewell di Lulu Wang o al recente, acclamato Perfect Days di Wim Wenders), il nuovo lavoro (dopo The Chambermaid) di Avilés (anche sceneggiatrice) affronta le ombre della malattia, della sofferenza e della perdita per celebrare senza retorica né enfasi melodrammatiche la forza (ri)generativa degli affetti, la capacità di strappare pezzi di felicità anche agli ultimi, più difficili momenti propri e dell’altro (con l’altro), il richiamo di ogni fine a un nuovo inizio.

La ciclicità del tempo, non nella forma di un circolo statico ma in quella dinamica di una spirale, è non a caso un concetto della cultura mesoamericana esplicitamente richiamato nel film. Che compone la sua drammaturgia in un mosaico di riti antichi e moderni (dove il fuoco è elemento simbolico chiave nella sua ambivalenza) e di creature non solo umane (gatti, cani, pappagalli, insetti), privilegiando un punto di vista ad altezza dei protagonisti più piccoli ma separandosi a più riprese da questi per abbracciare un’ottica pienamente corale.

«Mi piacciono i microcosmi, l’essenza delle cose, le matrioske, le piramidi, le cose che contengono altre cose», afferma ancora la cineasta. E Totem, ambientato quasi interamente nella casa che riunisce familiari e amici di Sol e di suo padre (per la festa, forse l’ultima, in onore dell’uomo), ha la sua delicatissima forza nel contenere, senza schiacciare o forzare in gabbie rigide di scrittura e di messa in scena, una moltitudine di figure, età, storie che potrebbero essere possibili spunti per altrettanti film. E ne diventano invece uno solo, plurale e sospeso su quel filo universale dove tutti noi camminiamo con chi ci è più caro.

RASSEGNA PANORAMICA
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