Volare, intervista a Margherita Buy

Margherita Buy debutta alla regia con Volare, in sala dal 22 febbraio con Fandango, racconto venato d’ironia di come le fobie ci facciano vivere peggio, e del tentativo di superarle. L’abbiamo incontrata

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Volare

La paura di prendere l’aereo blocca la carriera di AnnaBì, attrice affermata e non più giovanissima, ma anche la sua vita personale, perché la figlia sta per frequentare l’università all’estero e ad accompagnarla andrà solo l’ex marito. Intanto, un film importante di un “maestro coreano”, da girare a Seoul, rischia di andare alla sua acerrima rivale, dopo che lei ha fatto fermare durante il decollo il volo che la doveva portare in Corea per un attacco di panico. E così si ritrova a dover dire di sì all’ennesima stagione di una serie tv che lei detesta. Insomma: per AnnaBì è giunto il momento di affrontare una buona volta questa fobia, per provare a riprendere il controllo della propria vita e degli affetti. Mentre intanto attorno a lei le cose continuano ad accadere, tra delusioni, imprevisti, piccoli tradimenti. E le buone notizie scarseggiano.

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È la storia raccontata in Volare, il film prodotto da Kavac Film, Maremosso, IBC Movie, Tenderstories con Rai Cinema in collaborazione con Ita Airways, in uscita il 22 febbraio distribuito da Fandango, in cui Margherita Buy debutta alla regia dopo oltre 30 anni di carriera da attrice. Ne è anche la protagonista, con accanto Anna Bonaiuto, Giulia Michelini, Euridice Axen, Francesco Colella, Roberto De Francesco, Maurizio Donadoni, Pietro Ragusa, Oscar Matteo Giuggioli, Eros Galbiati, Caterina De Angelis, Ahmed Hafiene, Vanessa Compagnucci, la partecipazione di Massimo De Francovich e l’amichevole partecipazione di Elena Sofia Ricci. La abbiamo incontrata per farci raccontare come è andata. E parlando con lei ci siamo pian piano immersi in un mondo fatto di intelligenza e ironia, spesso rivolta a sdrammatizzare se stessa.

Spieghiamo innanzitutto ai lettori che non hanno visto Volare alla Festa del Cinema di Roma cosa ti ha spinto a fare un film da regista solo ora, dopo una carriera da attrice amatissima dal pubblico e apprezzata, in molti casi persino idolatrata, dai registi con cui hai lavorato.

Diciamo che prima… mi sono sincerata che non ci fossero leggi che me lo vietassero! E questo mi ha tranquillizzata. Scherzi a parte, c’erano le mie di “leggi”, molto severe. Che riguardavano il timore di non essere in grado di farlo. Ma volevo raccontare una storia che parlava molto di me e delle mie esperienze. E sentirmi ripetere la frase “ma no, questo film lo devi fare tu”, mi ha aiutato a capire che affidarlo a un’altra persona avrebbe portato a un film probabilmente più bello, ma meno personale.

E come è stata l’esperienza da regista?

Finivamo di girare una scena e mi ritrovavo a dire a me stessa: “ah già, ma ora devo andare a vedere questo, controllare quello…”. O viceversa: ero impegnata nella regia e qualcuno mi ricordava che toccava a me andare in scena. È un massacro. Sei sempre in movimento, devi controllare se si sta preparando il set successivo senza trascurare le luci della scena che giri in quel momento, o vedere se il movimento di macchina è venuto come lo volevi. Non è una cosa semplice, anche se molti fingono che lo sia. Invece sembri Ridolini, ti muovi a velocità multipla come in quei film muti di tanti anni fa.

La tua ricostruzione strappa il sorriso, ma sono convinto che non sia tutto qui.

Ho puntato molto sulla preparazione! Ho lavorato tanto sul copione ed evitato qualsiasi improvvisazione da set, di quelle che nascono sul momento. Questo mi ha dato tranquillità. E poi, proprio sul set è successa una cosa magnifica: ho avuto il sostegno e la disponibilità di tutti! Un affetto inaspettato dalla troupe e dagli altri, e anche gli attori mi hanno dimostrato tanta fiducia. C’era affetto, un desiderio di fare il meglio possibile. E sono stati angeli, perché per realizzare il film senza sforare il budget, in certi momenti per loro ci sono state attese infinite, perché tornassimo a girare una scena che li coinvolgeva. Ho avuto la fortuna di vincere tanti premi nella mia carriera, ma le sensazioni provate sul set di Volare mi hanno fatto persino più piacere.

In Volare racconti una storia che è di tutti: le fobie, la difficoltà di farci i conti attraversano generi, culture, classi sociali.

Sì, è una storia trasversale. E preparandola mi sono resa conto che riguarda tutti. Ho visto in difficoltà le persone più insospettabili. Per tutti la paura è sempre la stessa. Poi magari c’è chi è più bravo a nasconderla. Ma mi sono sentita meno sola. E vedendo Volare spero ci si sentano anche tante persone con problemi simili a quello che raccontiamo.

Il rapporto con tua figlia ha un peso rilevante nella storia. Quanto c’è di autobiografico?

Beh, il confronto tra due diverse mentalità è simile, ma nel film lei l’abbiamo ringiovanita un po’. Mia figlia per sua fortuna è una persona con una grande sicurezza, e soprattutto vive bene il suo rapporto con il viaggio. E quando è andata a studiare all’estero mi sono forzata e sono andata a trovarla. In aereo!

Adesso voli? Hai vinto la tua paura?

Diciamo che sono brava a creare delle scuse per cui “purtroppo non posso”. Però sto sognando molto di prenderlo, l’aereo. Cosa che prima non facevo. Nella mia testa si fa strada l’idea che vorrei tanto andare a fare quella tal cosa e ho anche un gruppo di sostegno, persone incoscienti che si offrono di accompagnarmi. Mi fa tenerezza perché non sanno a cosa vanno incontro. Insomma, ora mi piacerebbe molto volare.

E dato che l’esperienza di regia l’hai fatta, pensi di ripeterla? Anche altre tue colleghe stanno dimostrando che c’è uno spazio per registe donne.

Sto pensando che magari questa cosa potrebbe avere un seguito, anche per non dar l’idea che sia stata un’esperienza legata al fatto di raccontare cose di me, egoistica, per farmi conoscere meglio o per mettermi in risalto. L’idea di avere la libertà di alternare le esperienze mi piace. Come molti, ho scelto questa professione perché dentro c’è qualcosa di libero. Se diventa un lavoro che ti fa ripetere le stesse cose, secondo me perde di senso. Poi è chiaro che ogni volta uno si mette in discussione, cioè offre il fianco, no? Però offrire il fianco è anche bello, ti fa sentire più viva che restare nella tua comfort zone, come la chiamano ora.

>> L’intervista completa è a pag.128 di Ciak febbraio <<