Il festival visto da Piera Detassis: ragazzi e biopic selvaggi

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Boschi incantati o volte stregati, grotte, passaggi misteriosi e incontri sott’acqua. Un tono da fiaba con le oscurità crudeli dei Grimm. È la rilettura inedita di un racconto (vero) di mafia che ci regalano Fabio Grassadonia e Antonio Piazza con Sicilian Ghost Story, film italiano che ha aperto la Semaine de la Critique. C’è Luna (Julia Jedlikowska), la ragazzina che, sola contro tutti, cerca di ritrovare l’amichetto del cuore sequestrato e sprofondato nel buio dagli uomini neri della criminalità organizzata, in Sicilia, come punizione per esser figlio di un pentito di mafia. L’ispirazione, dolorosa, è la vera tragedia di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino sciolto nell’acido dopo una prigionia di 779 giorni. Luna si batte contro il silenzio degli adulti, il suo sguardo e la sua fantasia accesi, in un crescendo di rivolgimenti fantasy, si spingono oltre ogni ostacolo ed entrano in contatto con il ragazzino condannato o con il suo fantasma, in un lago pieno di sortilegi. Poteva esser una denuncia civile e già vista, invece, con qualche trappola narrativa di troppo, diventa un film “diverso”, un film sui ragazzi e la loro innocenza che spacca le regole del cinismo adulto e dell’omertà, mettendo tutto fuori asse, tempo, cronologia, spazio.
Il cast di Sicilian Ghost Story alla proiezione ufficiale
Sì, i ragazzini ci guardano e il loro sguardo è supervista, un superpotere. Succede così anche nel bellissimo Wonderstruck di Todd Haynes, dove il filo della corrispondenza immaginaria si srotola a  cavallo degli anni Venti e degli anni Settanta (il ’27 e il ’77, per la precisione). Un ragazzino convive nell’immaginazione con la madre morta in un incidente e ricordata solo da un ritaglio di giornale di cronaca, insegue il padre che non conosce fino a New York, si perde nei boschi e nei lupi spaventosi ricostruiti nei diorama del suo rifugio misterioso, l’American Museum of Natural History di New York. I colori sono quelli caldi della New York anni Settanta, quando la vita era ancora vibrante di ogni libertà. Jamie vede oltre, assomma gli indizi, parla ma non sente, un incidente gli ha tolto l’udito senza regalargli la risorsa del linguaggio dei segni. Dall’altro capo del filo la giovanissima Rose negli anni Venti, in bianco e nero, parte da altri ritagli di giornale, quelli che parlano di una star del muto Lillian Mathew (Julianne Moore), che noi volentieri prendiamo come omaggio a Lillian Gish, e che è passata al teatro perché il sonoro le ha donato la parola ma tolto la voce.
C’è tanto cinema, memoria, messa in scena di macchine spettacoli fiammeggianti in Wonderstruck (non a caso tratto da una graphic novel di Selznick, lo stesso autore di Hugo Cabret), ma c’è soprattutto la voglia di due ragazzini di ricomporre i frammenti delle loro vite, che prima o poi si incontreranno in uno scrigno magico, ma reale, come l’immenso Diorama che ricostruisce in scala tutta New York. In un altro tempo, in un altro spazio. Film a modo loro di Fantascienza, come per dire che lo sguardo e i cuori puri (ne riparleremo quando debutterà qui a Cannes appunto Cuori puri di De Paolis) sono in grado di sconvolgere i piani temporali, spezzando le regole e le griglie che gli adulti costruiscono. Cannes insomma sta raccontando l’origine dello sguardo, dunque anche del cinema, e il valore della sua purezza adolescente.
Ed è proprio quello sguardo limpido che sembra mancare a Barbara, che ha aperto oggi Un certain regard, biopic tra il poetico e lo sfasato firmato dall’attore – regista Mathieu Amalric. Barbara, cantante icona di Francia è  interpretata da Jeanne Balibar. Film nel film , perché l’altro protagonista Amalric sta girando la storia della vita dell’artista, con tutti i riferimenti dark-esistenzialista al posto loro e adeguatamente fashion, ma le carte si confondono presto: dove comincia l’interpretazione e dove la vera Barbara per quel regista che pian piano si innamora della sua copia? Intronamenti, lievi o gravi deragliamenti anche per lo spettatore che non sa più dov’è, roba da adulti molto intellò nei sentimenti e troppo complici di facile poesia. Resta la meraviglia della voce di Barbara, ma un cuore puro avrebbe visto e sentito meglio.

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