Maixabel, Icíar Bollaín racconta una storia unica al Festival di cinema spagnolo

Nel suo film il dolore di un Paese e le seconde occasioni della vita

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Maixabel

Quello che Movies Inspired distribuisce nei cinema italiani dal 13 luglio è un film sulle conseguenze della violenza e il suo costo umano, come lo definiscono anche le note di regia, ma il Maixabel di Icíar Bollaín è soprattutto una incredibile storia realmente accaduta. Unica nel suo genere, come unica è la sua protagonista, tanto la incredibile Blanca Portillo che la interpreta sullo schermo (e della quale la regista dice che “non sarebbe stato lo stesso film senza di lei”), quanto la vera Maixabel Lasa, moglie di Juan María Jaúregui, assassinato dall’ETA nel 2000.

Scelto come film di chiusura della 15a. edizione del Festival di cinema spagnolo e latinoamericano, premiato ai Goya e tra i candidati ai prossimi EFA, in Maixabel si racconta il momento in cui – undici anni dopo – la donna riceve un’incredibile richiesta da parte di uno degli uomini che le hanno il marito: incontrarla nel carcere dove sta scontando la pena, dopo aver rotto ogni legame con il gruppo terroristico.

 

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Messi da parte la rabbia, i dubbi e il dolore, Maixabel Lasa accetta l’incontro, perché “tutti meritano una seconda possibilità”. Come si vede nel film, nel quale “abbiamo voluto raccontare la storia del nostro recente passato con passione, sincerità e con il più assoluto rispetto verso chi ha vissuto queste vicende”, citando la stessa regista madrilena. Che ammette di non aver conosciuto così bene questa storia “fino a che non ho fatto il film”, anche perché “Maixabel era molto nota nei Paesi Baschi, ma meno nel resto di Spagna”, e sintetizzando così al meglio i motivi che l’hanno spinta a portare sul grande schermo “una donna di grande ispirazione, una storia delicata, un tema doloroso e controverso, tutti elementi di cui valeva la pena parlare”.

Maixabel

Come nasce questo Maixabel?
Era una storia che conoscevo da circa 10 anni, perché gli incontri di cui parliamo si svolsero in segreto nel 2011, ma l’anno dopo El Pais pubblicò alcune interviste con le vittime che vi parteciparono. Ricordo di averle lette e di esserne stata molto colpita, ma non pensai a farne un film. Cosa che fece il produttore basco Koldo Zuazua, che dieci anni dopo, insieme a Juan Moreno, avvicinarono me e la co-sceneggiatrice Isa Campo per chiederci se volessimo raccontare questa storia. Una grande occasione per parlare dell’ETA, e di un tema che avevo vissuto come cittadina spagnola.

Un’occasione anche per conoscere la vera Maixabel
E’ stata una collaboratrice favolosa, non ha messo alcun veto ed è stata molto disponibile sin da subito. Sul set e fuori. Sempre positiva, generosa e coraggiosa. E’ stata la prima a vedere il montaggio finale, ma scrivendo la sceneggiatura abbiamo parlato spesso con lei, anche per chiederle cose concrete. Abbiamo incontrato la figlia, i due fuoriusciti dall’ETA (magistralmente interpretati da Luis Tosar e Urko Olazabal, ndr), altre vittime e la mediatrice degli incontri, siamo stati agli omaggi che fanno ogni anno e parlato con i suoi amici… Alla fine, gliel’abbiamo fatta leggere e ha detto solo “è andata così”.

Maixabel

Come avete evitato di farne un documentario?
C’è una parte della storia, inclusi alcuni dialoghi, nella quale siamo davvero molto vicini a come andarono davvero le cose, ma inevitabilmente c’è una parte di finzione. Le cose che raccontiamo in realtà sono accadute nel corso degli anni e ci sono personaggi che qui non sono presenti, o abbiamo unificato in uno solo, alcuni dei compromessi che devi fare per non trasformarlo in un documentario. L’importante era raccontare l’essenza di come successe e viverlo con loro, ché il bello di un film di finzione è che senti più emozione che in un documentario, sei lì con i personaggi.

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Cosa resta oggi dell’ETA?
Oggi non è più quella minaccia, costante, ma una volta c’erano centinaia di persone che vivevano nel terrore o sotto scorta. Nei paesi Baschi c’era un silenzio terribile, non si poteva parlare perché non sapevi chi ascoltava, da che parte stava, oggi non più. Quel che ho sentito facendo film è che resta un trauma immenso. C’è ancora molto dolore. C’è ancora da raccontare. Semmai, lo scontro è su come farlo: quello che è stato, se ne valse la pena o no, e fino a che punto. C’è una parte della società che ancora idealizza il passato, e un’altra – come per esempio il PP – che ancora usa l’ETA e l’argomento delle vittime quando gli serve. 50 anni di terrore non spariscono così, ma oggi la società respira. Ed è interessante il racconto di come vivono oggi le vittime e come si costruisce la convivenza dopo l’accaduto.

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