Sean Penn dirige i suoi figli in Una vita in fuga – Flag Day, un film che qualcuno (Le Figaro) ha definito il suo “migliore”, forse sull’onda dell’emotività per la storia raccontata e per il coinvolgimento dei due giovani Dylan Frances e Hopper Jack. Una – ennesima – interpretazione maldestra o personalistica del Sogno Americano, ispirata al regista dalla storia vera del falsario, spacciatore e truffatore John Vogel, padre della Jennifer, divenuta poi giornalista e scrittrice di un libro di memorie, quasi su ordinazione, Flim-Flam Man: The True Story Of My Father’s Counterfeit Life.
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“Il progetto del film risale a prima della pubblicazione della mia autobiografia – ricorda lei stessa nelle note di produzione. – Nel 2004, il produttore William Horberg e lo sceneggiatore Jez Butterworth mi vennero a trovare a Minneapolis e io feci fare loro un giro della città e della mia vita. Da allora, la sceneggiatura ha subito vari rimaneggiamenti – a un certo punto ho scritto anch’io una versione. Siamo arrivati più volte a un passo dal fare il film, ma è stato solo quando Sean Penn è salito a bordo che ogni tassello è andato al suo posto”.
E’ lui il John Vogel, padre anticonformista e assente che insegna a sua figlia Jennifer e al fratellino Nick a vivere inseguendo rischio e avventura. Esaltante per una bambina, o una adolescente ribelle, che però crescendo inizia a vedere erosa dalla realtà l’immagine eroica del padre. Le sue storie inverosimili perdono magia, e appaiono le conseguenze di una vita sregolata: debiti e carcere. Ma mentre John passa di promessa in promessa, e di progetto in progetto, Jennifer cerca stabilità e di costruire un proprio futuro.
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Presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, il film vive del carisma del sessantenne Penn e del quasi esordio della sua primogenita (al suo primo ruolo importante dopo l’horror Condemned e l’Elvis & Nixon del 2016), alla quale si chiede di rendere credibili narrazione e carica empatica. Un compito forse eccessivo, vista la storia fin troppo convenzionale – a differenza del soggetto raccontato – e un regista forse troppo distratto da preoccupazioni paterne per sollevarsi da un adattamento curato e ineccepibile formalmente, ma poco altro.
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Tra ricordi idilliaci e rivelazioni drammatiche, si sviluppa un ‘indie crime wannabee‘ senza troppa profondità e in balia di modelli piuttosto classici, senza nulla togliere ai singoli momenti raccontati e alla loro messa in scena. Resta interessante il racconto fatto dalla vera Jennifer del proprio padre, insoddisfatto e in fuga dalla propria vita tanto quanto la figlia da lui, che nell’unico momento di coraggio sembra in grado di cambiare facendo propria la lezione restituitagli dalla giovane, dopo le tante bugie. A prescindere dalla riuscita dei piani del personaggio e del suo interprete, emerge una figura alla quale sembra si chieda anche allo spettatore di perdonare tutto. Impresa possibile, soprattutto grazie all’intercessione di una colonna sonora notevole, nella quale spiccano diverse canzoni originali, su tutti dell’Eddie Vedder con cui Sean Penn aveva già lavorato in Into The Wild (quello sì il suo film “migliore”).