All’inizio c’è solo Eugene Allen Hackman (classe 1930), persona dal carattere assai riservato, cortese e calmo, ma anche disposto a rispondere fisicamente alle provocazioni quando è proprio il caso (dicono). Alle spalle il giovane Eugene ha un’adolescenza complicata (la madre divorziata e alcolizzata morì in modo atroce: si addormentò con in bocca la sigaretta accesa e questa diede fuoco alle lenzuola), fugata con l’arruolamento nei marines sino ai 19 anni e successivamente tanti lavori umili a sbarcare il lunario, imbattendosi nella scoperta della sua via, la recitazione, a 26 anni. La scuola di teatro la frequenta in California assieme a un altro signor nessuno, un certo Dustin Hoffman presto diventato suo amico fraterno, cui si aggrega a New York, a formare un incredibile “tris per l’avvenire”, l’allora altrettanto sconosciuto Robert Duvall. Da qui finalmente entra in scena, con il nome d’arte di Gene Hackman, quella che si affermerà come una delle formidabili personalità del cinema americano dai ’60 in poi. Fisico massiccio, sorriso aperto (e a volte falsamente rassicurante) per un metro e ottantotto di altezza («Il tuo amico che mestiere fa, il camionista?», chiese la prima volta che lo vide il padre di Hoffman al figlio), tratti somatici da caratterista, ma con l’energia e il carisma di chi può dominare le scene da protagonista, di modi espansivi sino all’esuberanza, al quinto film ingrana una marcia inarrestabile, cioé dal capolavoro-trave portante della prossima cinematografia new-hollywoodiana, Gangster Story (di Arthur Penn, 1967), tra l’altro sua prima candidatura – da non protagonista – agli Oscar. Nei 13 anni che seguono ecco una serie irresistibile di performances spettacolari. Tanto per citare solo proprio le indispensabili: Anello di sangue (1970, altra Nomination), Il braccio violento della legge 1 e 2 (1971, Primo Premio Oscar, e 1975), Per cento chili di droga (1971), Arma da taglio (1972), Lo spaventapasseri (1973), La conversazione (1974), Bersaglio di notte (1975), Stringi i denti e vai (1975). Il punto notevole è che, pur se idolatrato e considerato ideale per i film d’azione, sia di qua che aldilà della legge, Hackman sin da allora mostra raffinatezze espressive da fuoriclasse, ben oltre il cinema di genere. In effetti, a studiare i suoi characters, anche i più violenti o sadici, si colgono spesso in lui improvvisi lampi di tenerezza o credibilissima fragilità aldilà dello stereotipo (si pensi solo a come ha arricchito il suo cattivissimo da burletta Lex Luthor in Superman, 1978, e Superman II, 1980, con esplosioni di buffonesca allegria infantile, deliziosamente godibile e memorabile anche in quelli che restano dei simpatici e miliardari cinefumettoni bidimensionali). Versatilità e duttilità lo hanno reso clamorosamente efficace tra l’altro anche nelle commedie e nelle farse (vedi il cameo in Frankenstein jr, 1974 o In tre sul Lucky Lady, 1975) o nei melo-drammi, in cui ad agitarsi erano soprattutto le passioni: questo in effetti lo constateremo dagli ’80, con Eureka, 1983, Due volte nella vita, 1985, Un’altra donna, di Woody Allen, 1988. In effetti, Gene Hackman è un attore che ha sempre cercato di far convivere nella sua recitazione elementi apparentemente quasi agli antipodi. Dicevamo che come “duro” (tipologia che in realtà non gli corrisponde, visto che ha ripugnanza dello spettacolo della violenza: «Mentre stavo girando Il braccio violento della legge ho scoperto molto presto che non sono una persona violenta. E questi poliziotti sono circondati dalla violenza tutto il tempo. Ci sono stati dei giorni in cui volevo smettere»), ha sempre arricchito di sfumature particolari ogni sua interpretazione, persino in quelle più commerciali (come in Colpo vincente, 1986, il film da lui più detestato – tra i suoi – forse perché accettato per assoluto bisogno di denaro e girato inoltre in zone vicine a dove era cresciuto. Peraltro a chi interessa: quello al contrario da lui più amato è Lo spaventapasseri). Segretario della Difesa gelido e autoritario in Senza via di scampo (1987) che si rivela poi indeciso e vulnerabile; grossolano e finto cordialone agente dell’FBI in Mississippi Burning (1988, sua terza Nomination agli Oscar) che può ergersi di colpo a efficiente giustiziere; cinico avvocato yuppie in Il socio (1993) che si apre improvvisamente allo smarrimento e al rimorso; arrogante e smargiasso signore e padrone di una cittadina nel selvaggio West in Pronti a morire (1995) ma a un certo punto austero e addirittura spaventato prima di morire; razzista del Sud condannato a morte in L’ultimo appello (1996) che si apre al rispetto dell’altro e alla commozione; sessuomane Presidente degli USA in Potere assoluto (1997) colpito da ansia e incertezze comportamentali; spietato e amorale manipolatore di processi in La giuria (2003) con imprevedibili amarezze e affanni: Hackman ci ha riservato sempre qualche raffinatezza speciale, a ispessire e approfondire, nel bene o nel male, il carattere dei suoi personaggi, a renderli più umani, più sfumati o comunque in qualche modo originali. Per questo convince sempre o quasi. Concentrato nei legal thriller, dinamico negli action (cogliamo l’occasione per menzionare così anche Allarme rosso, 1995 o Nemico pubblico, 1998), marziale nei western storici (Gli spietati, 1992, che trattiamo a parte, Geronimo, 1993, Wyatt Earp, 1994), persino deliziosamente grottesco e bizzarro ne I Tenenbaum (2001), in cui è lo stravagante padre e patriarca di una strampalata e disfunzionale famiglia composta da geni, al limite od oltre la psicosi. E per questo è dispiaciuto a tutti quando ha deciso, dal 2004, di allontanarsi dalle scene (in tv ha detto che stava finendo disoccupato), dopo aver ricevuto un Golden Globe alla carriera, salutandoci con una invero non memorabile commedia, Due candidati per una poltrona. «Sono stato addestrato ad essere un attore, non una star», ha dichiarato una volta e potrebbe essere il suo perfetto commento d’addio. Da allora, appartato e in pace, si è dedicato alla scrittura (nel 2011 ha scritto il suo quarto romanzo western, Payback at Morning Peak), in famiglia (si è sposato due volte, nel 1956 e nel 1991 e dalla prima moglie ha avuto tre figli), non disdegnando peraltro a comparire qualche volta in interviste tv o in documentari commemorativi.
I SUOI TRE FILM CULTO
IL BRACCIO VIOLENTO DELLA LEGGE (1971). Di William Friedkin. Con G.H., Roy Scheider, Fernando Rey. Due agenti newyorchesi della narcotici dai metodi non irreprensibili scoprono che molta parte della droga arriva da Marsiglia e il responsabile è il francese Alain Charnier. Il personaggio di Hackman, Jimmy Doyle, detto “Popeye” (ma in Italia fu tradotto con “Papà”) è uno dei character da poliziotto più leggendari dello schermo. Trasandato, sarcastico, brutale, popolano nei gusti e nei modi, ha fatto da modello per tanti Irish Cop da lì a venire. Nel sequel di Frankenheimer del 1975 viene spedito, straniero in terra straniera, a Marsiglia, a regolare i conti. Per l’attore, un Oscar, un Golden Globe, un Bafta, solo per citare i riconoscimenti maggiori.
LA CONVERSAZIONE (1974). Di Francis Ford Coppola. Con G.H., John Cazale, Frederic Forrest. Il nevrotico investigatore privato Harry Caul, specializzato in sorveglianza e intercettazioni, viene assunto per un’operazione che si rivelerà via via meno chiara, sino a farlo precipitare nella paranoia. Ricorda Hackman: «Coppola inizialmente voleva Brando per il ruolo. È un regista molto concreto. Ma dopo un po’ di prove ha deciso di lasciarmi lavorare in solitudine, perché era quello che richiedeva la parte, in un film basato sulla paranoia. Ha avuto la grande intuizione di farmi recitare senza indicazioni o le attenzioni che i registi sono soliti avere su quello un attore deve dire o fare». Il risultato è un capolavoro assoluto.
GLI SPIETATI (1992). Di e con Clint Eastwood. Con G.H., Morgan Freeman, Richard Harris. Due ex fuorilegge, di cui uno, William Munny, circondato da una fama particolarmente sinistra, più un giovane aspirante bounty killer, accettano di vendicare per denaro una prostituta sfregiata. Ma la “missione” precipita per l’intervento particolarmente sadico dello sceriffo Daggett. Un western nerissimo che Hackman illumina con una maiuscola interpretazione (e pensare che inizialmente non voleva recitarvi per la troppa violenza della storia!), di uomo della legge tanto esperto e pratico quanto imprevedibilmente capace di atti di ferocia gratuita. Tra i quattro Oscar meritati dalla pellicola, c’è anche il suo, come Non Protagonista.