“I PUGNI IN TASCA” DI BELLOCCHIO TORNA A LOCARNO: ECCO PERCHÉ CAMBIÒ IL VOLTO DEL CINEMA ANNI ’60

0

50 anni fa Locarno scopriva e aiutava a scoprire uno dei talenti più genuini, originali, coerenti e umbratili del nostro cinema. Stiamo parlando di Marco Bellocchio e di I pugni in tasca, proiettati allora in prima visione proprio al festival del Pardo. Che non se lo dimentica e il 14 agosto, in Piazza Grande, lo presenterà nuovamente in versione restaurata, a cura della Cineteca di Bologna con il contributo di Giorgio Armani, produzione della Kavac e distribuzione mondiale di The Match Factory.

Ecco in nove punti, l’essenziale di quel film che rinnovò la cinematografia italiana e anticipò di qualche anno la contestazione generale del 1968.

1 UN NUOVO LINGUAGGIO PER UN NUOVO CINEMA

I pugni in tascaGli anni ’60, stiamo parlando degli inizi, erano in Italia cinematograficamente contraddittori. Da una parte la pancia piena della distribuzione di film di genere, commedie, incassi e lavoro, dall’altra un cinema d’autore attivo e vivace (in quegli anni Fellini con La dolce vita, Visconti con Rocco e i suoi fratelli, Antonioni con L’avventura erano ai vertici della loro potenza artistica, il neorealismo si avviava al suo declino non senza ultimi bagliori di grandezza e la politica dei produttori di dare spazio a nuovi autori, con opere prime, se fece tante vittime che non arrivarono all’opera seconda, nondimeno permise debutti di personalità di futuro assoluto rilievo, da Olmi a Pasolini, da Ferreri ai Taviani, da Vancini a Pontecorvo). Mancava però qualcosa. Qualcosa che potesse esprimere in un linguaggio nuovo, alternativo e adeguato il malessere, l’insoddisfazione, soprattutto giovanile, che nel resto d’Europa stava già producendo (o si apprestava a produrre) importantissimi movimenti di avanguardia e capolavori di rottura, dal Free Cinema inglese alla Nouvelle Vague francese, al cinema generoso e rischioso dei paesi d’oltrecortina in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria. Fortunatamente arrivò Bertolucci, con l’opera seconda, Prima della Rivoluzione e soprattutto arrivarono I pugni in tasca di Marco Bellocchio, un vero candelotto di dinamite lanciato nello stagno di Cinecittà, facendo apparire tutto ciò che era stato fatto prima, se non da rottamare (sarebbe una assurdità oltre che una scemenza solo il pensarlo!), comunque inadeguato, non moderno, poco attento al nuovo che stava avanzando con sempre maggior rabbia e consapevolezza di sé.

2 MARCO BELLOCCHIO: UN GIOVANE TALENTO

Marco BellocchioMa chi era questo piacentino di Bobbio, classe 1939, capace di realizzare nella maniera più impensata un’opera così notevole al primo botto? Al tempo di cui parliamo, anno Domini 1965, Marco Bellocchio era solo un fresco diplomato in Regia alla scuola Sperimentale di Cinematografia a Roma, con un’educazione dai salesiani, qualche corto degno di nota (Abbasso il zio, La colpa e la pena, Ginepro fatto uomo) e approfondimenti di studi a Londra. Dall’Inghilterra al ritorno in Italia, a 26 anni si costruirà in casa il suo debutto. È I pugni in tasca.

3 I PUGNI IN TASCA: SIMBOLO DI RIVOLTA A UNA CONDIZIONE ESISTENZIALE

Cosa significa il titolo? Ce lo spiega lui stesso in una intervista d’epoca (ottobre 1965) per Filmcritica. A cura di Luigi Martelli, Maurizio Ponzi e Stefano Roncoroni: «Scrivendomi Ugo Casiraghi (importante critico dell’Unità, n.d.r.) mi faceva la stessa domanda; spero che non me ne vogliate se vi rispondo come ho già risposto a lui. Il titolo I pugni in tasca vorrebbe esprimere l’atteggiamento volontariamente malato di Alessandro, nel suo comportamento pubblico e famigliare; atteggiamento di rivolta a una condizione esistenziale che non si manifesta mai sotto forma di cosciente rifiuto, ma che si esalta nella solitudine e prova la sua forza in un’arca fantastica dominata dai sogni, dove le frustrazioni e le impotenze si accumulano e si moltiplicano. Chi tiene i pugni in tasca si avvia inesorabilmente verso le conseguenze estreme della propria ignavia: quanto più i pugni sono rimasti stretti nell’angustia di una progressiva incapacità di azione, tanto più incontrollabile e fatale esploderà infine il desiderio di rivolta e la troppo compressa vocazione al male ».

4 LA TRAMA: UNA FAMIGLIA DISTORTA 

I pugni in tascaCome si vede, alla base c’era lucidità di linguaggio e puntigliosità di intenti. Come del resto la trama non può che confermare. In una sonnacchiosa città di provincia del nord Italia, una famiglia (4 fratelli orfani di padre e una madre cieca) si macera e si distrugge tra le personalità distorte dei suoi componenti. Ale è affetto da crisi di epilessia ed è morbosamente legato alla sorella Giulia, a sua volta debole e un po’ immatura che a sua volta predilige il fratello maggiore, Augusto, l’unico che ha una vita “rivolta” verso l’esterno, regolarmente fidanzato peraltro cinico, dalle ambizioni meschinamente borghesi e grette. In quanto all’ultimo, Leone, è un handicappato, silenzioso, ritardato e classica vittima designata. Ale decide di liberarsi e liberare la famiglia dai suoi legami malati. Uccide la madre scaraventandola da una scarpata e poi affoga Leone. Giulia, quando lo scopre, ha una crisi, cade e rischia di rimanere paralizzata. L’ignaro Augusto annuncia di voler andare via da casa e Ale lo blocca rivelandogli i propri crimini e minacciandolo. Per il complessato Ale potrebbe finalmente realizzarsi così la situazione ideale, con i rimanenti in qualche modo a lui legati. Senonché, mentre inebriato dalla “raggiunta” libertà danza, canta e saltella tra le stanze, ha una violentissima crisi epilettica, chiede disperatamente aiuto a Giulia che ode ma non si muove, lasciandolo morire.

5 TRAVAGLIATA ADOLESCENZA

La terribilità della storia, fortemente simbolica – come si intuisce anche dalla trama esposta in modo succinto – parte dal tema dell’adolescenza per allargarsi ad altre questioni. Ma questo è meglio farselo spiegare da Bellocchio stesso, qui intervistato da Giacomo Gambetti: «Il film, quando era partito, sulla carta voleva limitarsi all’analisi di un comportamento adolescenziale. Cioé voleva analizzare soprattutto una stagione della nostra vita che è stata di tutti e che secondo me è prevalentemente negativa. E dove esiste una negatività esiste uno stato permanente di frustrazione, di impotenza che al tempo stesso l’adolescente cerca di rinnegare (…), questo era l’avvio (…) il cercare di narrare l’adolescenza in una situazione naturalmente estrema. Poi c’è stato un aggancio di tipo storicistico, se così vogliamo dire, cioé d’accordo l’adolescenza, ma l’adolescenza in una società borghese. Però l’ambiente (è uno dei limiti secondo me del film) è eccessivamente schematizzato, dico l’ambiente esterno alla famiglia: questo sia per ragioni produttive economiche, e di tempo, che di immaturità ».

6 UN FILM LOW BUDGET 

I pugni in tascaGià, uno degli aspetti più affascinanti di I pugni in tasca è come è stato realizzato. Dal punto di vista della ricerca dei finanziamenti fu un’avventura nell’avventura. Fu tutto autofinanziato (budget a metà tra lui e l’organizzatore generale Enzo Doria), nessun casa di produzione o distribuzione volle rischiare. Un piccolo ma fondamentale aiuto venne dal fratello Tonino, magistrato, che contribuì con una cinquantina di milioni. La realizzazione fu una conseguenza delle ristrettezze: quasi tutti gli interni furono girati nella casa di campagna della madre, i mobili furono prestati da parenti e amici. Le riprese durarono nove settimane nell’inverno 1964 tra Piacenza e Bobbio. Ma come ha sempre sostenuto: «la sola ragione che mi ha permesso di lavorare liberamente è che I pugni in tasca è costato 15 volte meno ».

I pugni in tasca7 LOU CASTEL PER IL VOLTO DI ALE

Che ne direste di un cast con Gianni Morandi, Raffaella Carrà e Maurice Ronet? Bene, i primi nomi in mente a Bellocchio per il cast erano proprio questi. Fortunatamente anche un po’ per i motivi economici detti prima, si optò per altri attori (che, va detto, accettarono, come del resto i tecnici ingaggiati, a lavorare a paga ridotta o ai minimi sindacali). Bellocchio si ricordò di uno che aveva incontrato al Centro Sperimentale e che studiava regia, Lou Castel, che accettò il ruolo del protagonista. Dandogli peraltro un contributo fondamentale, aggiungendo al suo puro folle cattivo – come ammise il regista – una dolcezza e una leggerezza non previste nel copione: «mi convinse per quel suo modo di ridere improvviso, violento e irrefrenabile che spesso durante le riprese mi obbligava a dare lo stop ». Tra l’altro ciò provocava reazioni diverse negli altri membri del cast: mentre Paola Pitagora (Giulia) lo assecondava, Marino Masé (Augusto) si irritava alquanto, irrigidendosi e arrivando ai rimproveri quando non allo scontro fisico. Il che se vogliamo era perfettamente coerente con lo spirito dei personaggi.

8 UN CAST TECNICO D’ECCEZIONE

Montato da Silvano Agosti (con lo pseudonimo di Aurelio Mangiarotti), l’aiuto regia di Vittorio De Sisti, la fotografia di Alberto Marrama (e Giuseppe Lanci operatore), le scene di Gisella Longo, l’assistenza al doppiaggio (specialmente Lou Castel che pure recitava in italiano, purtroppo con accento straniero e fu quindi doppiato da Raul Grassilli) di Elda Tattoli e le musiche di Ennio Morricone – quindi praticamente la futura crema del cinema italiano – il film ottenne il visto per la visione vietata ai minori di 18 anni. Fu presentato in anteprima al Festival di Locarno (appunto), dove vinse la Vela d’Argento mentre fu rifiutato al Festival di Venezia e proiettato ai margini in una sala non ufficiale. Vinse poi il Grifone d’oro del Premio città di Imola (un attestato che Bellocchio apprezzò tantissimo, tanto da scegliere di girare il suo secondo film, La Cina è vicina nel 1967, proprio lì), il Nastro d’Argento (1966) per il soggetto originale e il premio Cinema Novo per la regia al Festival di Rio de Janeiro (1965). La sua prima proiezione ufficiale pubblica fu il 31 ottobre 1965. In tutto i suoi incassi furono di 148 milioni di lire.

9 AL CENTRO DEL DIBATTITO CRITICO

I pugni in tascaIn Italia la novità del suo stile cinematografico, capace di calcare di tinte isteriche un melodramma/storia criminale, con soggettive, tagli improvvisi, digressioni, accentuando volontariamente la dimensione parossistica e malata sino al grottesco e all’humour nero, non passò comunque inosservata e fu al centro di interventi critici e dibattiti, ripresi poi anche aldilà delle Alpi. Se qualcuno lo accusò compiacimento dell’impotenza, di non aver voluto indicare alcuna possibilità d’uscita (rivoluzionaria), almeno utopica, Calvino al contrario faceva notare come nel film fossero espliciti i limiti patologici di quella rivolta individuale e questo costituisse già una presa di distanza critica, mentre Paolini, nel pieno rispetto del film, sosteneva invece come non fosse sostenibile l’idea che il dare scandalo fosse un valore civile. Lino Micciché scriveva che la “moralità” del film non andava cercata nei suoi contenuti, piuttosto era «concentrata nella tensione stilistica, nel linguaggio terso, lucido, volutamente freddo con cui il regista vede e fa vedere i suoi personaggi e in ciò li giudica, e giudica se stesso, e noi ». «Film atroce che proietta nel reale i travagli più segreti dell’animo di un adolescente, è anche un grande e bel film, un’opera animata da una strana forza poetica » lo esaltava Jean De Baroncelli su Le Monde. Ma forse uno degli approcci più acuti per cogliere il senso di questa clamorosa opera prima fu quello di Mario Soldati, che avvertiva come il film fosse sostanzialmente una commedia, da ridere. «Un riso dissacrante, per nulla liberatorio né consolatorio ma ribelle, arrabbiato, intensamente negativo » (sintesi di Luisa Ceretto in Le forme della ribellione -Il cinema di Marco bellocchio, Lindau).

Massimo Lastrucci