VENEZIA 73: OGGI È IL GIORNO DI JEAN-PAUL BELMONDO

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Tra i Sessanta e i Settanta, una questione infiammava la Francia e i limitrofi (intesi come paesi): chi era più affascinante, Alain Delon o Jean-Paul Belmondo? Già perché “il brutto più affascinante di Francia” Belmondo era l’icona d’esportazione del cinema francese, quello popolare fatto di polar, commedie movimentate ma con humour, drammi sentimentali un po’ “intello”, magari realizzati in coproduzione con Cinecittà. Clamorosa dunque sarà la carriera del figlio di uno scultore e di una pittrice, nato a Neuilly sur Seine il 9 aprile 1933, diplomato in recitazione teatrale (quella seria, classica, in costume: Molière e Cyrano per intenderci) e diventato poi grazie a Godard il volto sfrontato, alla “me ne impippo delle convenzioni” del cinema della Nouvelle Vague.

Naso da pugile, testone piazzato su spalle diritte e capienti, fisico scattante (una sua prerogativa è che si sarebbe spesso rifiutato di servirsi di stunt-man per le scene più pericolose, per il patema e l’entusiasmo della troupe, smettendo solo nel 1985 quando in Hold-Up di Arcady si fece male sul serio), ma soprattutto un sorriso disarmante a tutto denti che conquistava ogni tipo di platea; con l’aria svagata del tipo amorale si fa notare già in Peccatori in blue jeans (1958) di Carné, A doppia mandata (1959) di Chabrol e in La ciociara (1960, di De Sica, la prima di tante escursioni, non solo cinematografiche in Italia). Ma è con Godard nel film manifesto Fino all’ultimo respiro (1960) che diventa il volto più significativo del nuovo cinema francese, quello ribelle e anticonvenzionale.

Belmondo, presto soprannominato Bebel, non è però un tipo elitario, assolutamente. Piuttosto è un divoratore di esperienze cinematografiche di ogni tipo, duttile e di successo, l’ideale per il cinema degli anni internazionali del boom (che non c’era solo da noi): gialli-noir come l’ottimo Asfalto che scotta (1960, di Sautet), sentimentali vibranti come Moderato cantabile (1960, di Brook), La viaccia (1961, di Bolognini), il primo incontro con Melville in Léon Morin, prete (1961). E poi ancora Godard (La donna è donna, 1961, soprattutto Il bandito delle undici, 1965), un altro capolavoro con Melville (Lo spione, 1962), Castellani (Mare matto, 1963), più l’inizio della svolta “piaciona” della sua carriera: Cartouche (1962) di de Broca, cui farà seguito nel 1964, sempre con lui, uno dei suoi più grandi successi al botteghino: L’uomo di Rio. Bebel è ormai la star che conta, amatissimo dalle donne (ma simpatico anche agli uomini), cui si concede con ardore guascone (avrà due mogli, quattro figli e due lunghe relazioni al calor bianco – con Ursula Andress e poi con Laura Antonelli – per la gioia dei paparazzi e dei rotocalchi), esattamente come sullo schermo, sempre più “commerciale”, sempre più superficialmente dinamico: Un avventuriero a Tahiti (1966, di Becker), Un tipo che mi piace (1969, di Lelouch), Il cervello (1969, di Oury), il successo di Borsalino in coppia con l’amico-rivale Delon (1970, di Deray), Il clan dei marsigliesi (1972, di José Giovanni). Ogni tanto ritorna da quelli della nouvelle vague (peraltro già un po’ addomesticati): con Malle nel brillante Il ladro di Parigi (1967), con Truffaut in La mia droga si chiama Julie (1969), con Chabrol in Trappola per un lupo (1972). Come si vede comunque dai titoli, si tratta comunque ancora di un signor curriculum, sicuramente “positivo”.

I suoi Settanta scorrono quasi per inerzia. Se si eccettua il tentativo (onorevolmente fallimentare) di Stavisky il grande truffatore (1974 di Resnais), il resto è “roba facile”, routine allegra in cui replica la sua maschera di spericolato un po’ guascone, da Il poliziotto della brigata criminale (1975, di Verneuil), a Lo sparviero (1976, di Labro), Joss il professionista (1981, di Lautner), sino a Professione poliziotto (1983, di Deray). Da qui in poi, con la maturità, cominceranno i ripensamenti, il ritorno all’amore della gioventù – il teatro – con conseguenti pause dal set. Al cinema riceverà qualche riconoscimento che suona quasi più un rimedio tardivo che la sottolineatura di un exploit: il Cesar per Una vita non basta (1989) di Lelouch, con cui reciterà anche in I miserabili nel 1995.
Nel 2001 un’ischemia cerebrale sembra stroncargli ogni futuro artistico. Ritornerà comunque sul set ancora una volta in Un homme et son chien (2008), remake di Umberto D orchestrato da Francis Huster. Nel 2011, Cannes gli conferirà una onoraria Palma d’Oro alla carriera.

TRE SUOI FILM CULTO

FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (1960) 
di Jean Luc Godard

Ladro d’auto, truffatore e assassino, Michel Poiccard/Laszlo Kovàcs si rifugia a Parigi da Patricia Franchini, una studentessa sua ex fiamma. Quando la ragazza si rende conto della sua personalità distruttiva lo denuncerà per costringerlo a fuggire, causando però la sua morte. Opera prima di Godard e manifesto della nouvelle vague, da un soggetto di Truffaut, con una sceneggiatura scritta giorno per giorno. Un capolavoro capace di intercettare lo spirito del tempo come pochi altri film.

LO SPIONE (1962) 
di Jean-Pierre Melville

Rapinatore di recente scarcerato, Maurice Faugel organizza un colpo in una villa. Ma cade in una imboscata della polizia. Ferito, riesce a fuggire: non avrà pace finché non troverà la spia che lo ha tradito. I sospetti cadono sul collega e amico Silien. Stupendo noir ai vertici del cinema francese (è il gangster movie preferito da Scorsese e Tarantino), arricchito da una fotografia (in b/n) di Nicolas Hayer assolutamente meravigliosa che sottolinea le atmosfere crepuscolari e sfuggenti adeguate al carattere dei personaggi.

L’UOMO DI RIO (1964)
di Philippe De Broca

L’aviere Adrien Dufourquet in licenza a Parigi, per trovare la fidanzata Agnese rapita, si infila in una movimentatissima avventura che lo porterà a Rio de Janeiro, tra esploratori, omicidi, furti, inseguimenti e tanto humour. La commedia che rivela le splendide qualità da commediante spiritoso di Bebel, che gli darà una fama incredibile e che lo porterà a scelte professionali assai diverse. Nomination agli Oscar per la Miglior Sceneggiatura (cui collaborarono anche due giganti come Jean-Paul Rappeneau e Ariane Mnouchkine).