What You Gonna Do When the World’s on Fire?, Roberto Minervini: “Rischio in prima persona per raccontare gli ultimi”

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What You Gonna Do When the World's on Fire?

What You Gonna Do When the World’s on Fire? di Roberto Minervini ha trionfato al 62esimo London Film Festival vincendo il premio come Miglior Documentario. Ecco la nostra intervista al regista realizzata da Piera Detassis in occasione di Venezia 75.

What You Gonna Do When the World's on Fire?

È bello incontrare un film, ma lo è ancora di più incontrare un uomo e la sua avventura umana, perché il cinema di Minervini è prima di tutto questo. Roberto viene da Fermo, anzi da Monte Urano, nelle Marche, ha insegnato a Manila, ha seguito la moglie filippina in America, ha quarantotto anni, e ha già folgorato Cannes con Stop the Pounding Heart
(2013) e Louisiana (2015). Oggi vive a Houston, Texas, «che», dice lui, «è dove voglio essere, una roccaforte blu democratica assediata da una zona rossa, quella dei repubblicani. Amo vivere nella tensione. E lì c’è». Il ragazzo di provincia, che voleva essere reporter di guerra, appena può sale in macchina e in cinque ore da casa arriva
in Louisiana o nel Mississippi, le sue altre patrie. What You Gonna Do When the World’s On Fire? è stato girato tra Baton Rouge e Jackson, 70% di popolazione nera nell’estate 2017, a ridosso delle uccisioni di Alton Sterling e Philando Castile per mano della polizia.

What You Gonna Do When the World's on Fire?

Il racconto, in brillante bianco e nero, entra nelle vite di alcuni abitanti della comunità: c’è la meravigliosa resistente Judy Hill, marchiata a fuoco dalla vita, un bar che sta per chiudere e la droga nel passato, ci sono Rolando e Titus, padre in galera e vite in quelle strade, dove da un momento all’altro può arrivare una pallottola. E poi – è la parte più sorprendente del film – ci sono le donne e gli uomini del ‘New Black Panthers Party for
Self-Defense’ che pattugliano salutando a pugno chiuso e ogni giorno assediano il
palazzo di giustizia alla ricerca di risposte. «Per riuscire ad avere la loro fiducia ho
passato mesi d’interrogatori durissimi in zone remote, anche da parte di Christa
Mohammed, la responsabile nazionale del partito che vedete nel film. Ho avuto paura,
tanta, non sono un eroe. Le Black Panthers considerano tutti i media controllati da
bianchi potenti, Trump ha inserito subito l’organizzazione nella domestic terroristic
watchlist dove però non c’è il Ku Klux Klan. Io però sono una scheggia impazzita e mi hanno dato fiducia, una decisione più spirituale che politica».

What You Gonna Do When the World's on Fire?

Nel film, e dunque nel regista, vivono una sensibilità e una pietas a fior di pelle,
nonostante la paura, nonostante il senso elevato del rischio. Qual è la genesi di un film così? «Il progetto viene dopo», racconta Minervini, «prima ci sono gli incontri, l’avventura
di vita in prima linea assieme a loro. Non sono incosciente, ma non abbiamo coperture. Ho sempre pensato che devi essere al loro stesso livello se vuoi raccontare le persone. Al primo meeting ho colto quel dialogo, agghiacciante: “Mamma chi è morto?” “Ah, non lo so, l’hanno ammazzato qui dietro”. Il posto è pericolosissimo, da quando ho girato due dei personaggi sono già morti». Si fa fatica a definire il film semplicemente documentario, la narrazione scorre fluida e armoniosa come su uno
story board.

Continua a leggere l’intervista a Roberto Minervini sul Ciak di settembre.