“DAVID LYNCH: THE ART LIFE”: LA RECENSIONE

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David Lynch

Usa/Danimarca, 2016 Regia Jon Nguyen, Rick Barnes, Olivia Neergaard-Holm Distribuzione Wanted Durata 1h e 30’

Al cinema dal 23 febbraio 2017

David Lynch ripercorre la sua vita “da cucciolo”, dall’infanzia a Missoula, in Montana (“una famiglia felicissima”), all’adolescenza inquieta (“la notte perpetua della Virginia”), alla giovinezza a Philadelphia (“Era la New York dei poveri. Quindi una città strana. Una specie di città maligna”), alla borsa di studio dell’American Film Institute che gli cambiò la vita sino alla realizzazione di Eraserhead – La mente che cancella. Il racconto è accompagnato dalle immagini del lavoro quotidiano del Lynch di oggi, con i suoi concretissimi quadri che si aprono a visioni eccentriche e mostruose, inframmezzato da documenti dal passato: foto, filmini familiari, quadri, spezzoni scartati dalle sue prime opere di animazione e scene dal set del suo folgorante debutto nel lungometraggio, anno 1977.

Il perfetto equilibrio di mondi opposti che convivono nello spirito di uno dei più importanti e versatili artisti dell’America contemporanea stupisce e regala senso all’impeccabile lavoro documentario di Jon Nguyen, Rick Barnes, Olivia Neergaard-Holm. Da una parte la tranquilla “normalità” di un esemplare della migliore pulita provincia americana, con tanto di adolescenza da teppista, la scoperta di una vocazione totalizzante, l’etica del lavoro, l’amore, i figli (a proposito: il film è dedicato alla piccola Lula, l’ultimogenita nata nel 2012); dall’altra la potenza di un immaginario pauroso a emergere attraverso l’arte, posizionato nella profondità di un inconscio non solo suo (evidentemente) che produce specchi deformanti dell’orrore sotto la quotidianità in tutti gli aspetti in cui si esercita (“anche se si tratta di idee nuove, è sempre il passato che le colora”): dalla pittura al disegno, al fumetto, alla scultura, all’animazione, al cinema, alla musica.

Il racconto è scorrevole, ricco di aneddoti e ringraziamenti dovuti (a Bushnell Keeler, pittore di genere che gli aprì gli occhi e la strada o all’amico Jack Fisk, ora scenografo di fama nonché marito di Sissy Spacek, suo compagno di scuola e di avventure formative), non privo di una sua sghemba ironia, come quando Lynch ricorda la visita del padre a Filadelfia, che dopo aver visto – con progressivo sconcerto e orrore – quello cui artisticamente era interessato il giovane David gli disse: “Spero che tu non abbia mai dei figli”.

Presentato con successo all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, La vita dell’arte (che è poi l’aspirazione che ha spinto l’autore sino a una adesione radicale: “dipingere, dipingere e cercare di arrivare a qualcosa”) fornisce ottime chiavi interpretative (tranne ovviamente l’insondabilità metafisica delle opere) per inquadrare questo surrealista tra rock e zen, che ci ha affascinato e terrificato con il suo cinema, a stravolgere e demonizzare il tran tran dell’estetica dei generi (The Elephant Man, Dune, Velluto Blu, Mullholland Drive, Inland Empire, Twin Peaks). Imperdibile per i fan, profani astenersi.

Massimo Lastrucci

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