Il mangiatore di pietre, Luigi Lo Cascio scopre un delitto tra i monti: la recensione

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Italia/Svizzera, 2018 Regia Nicola Bellucci Interpreti Luigi Lo Cascio, Vincenzo Crea, Bruno Todeschini, Ursina Lardi, Leonardo Nigro, Lidiya Liberman, Elena Radonicich, Antonio Zavatteri, Vanessa Compagnucci, Paolo Graziosi, Peppe Servillo, Paola Caprara Distribuzione Achab Film Durata 1h e 49′

Al cinema dal 18 luglio 2019

LA STORIA – In una chiusa valle al confine con la Francia, Cesare, ex passeur (ovvero contrabbandiere, anche di uomini) coltiva con torva determinazione la sua selvatica solitudine. Ha conosciuto il carcere e una prematura vedovanza gli ha seccato il cuore, lasciandogli come risorsa esistenziale un cane e le sigarette. Ora con pochi amici, si trascina in una vita austera tra lavori con legno, caccia, raccolta dei frutti del bosco.

In un brutto giorno di tardo autunno scopre in un torrente, il cadavere di un suo amico, Fausto. Chi è stato? La polizia, più che con il compiacente maresciallo Boerio con la commissaria inviata Di Meo, indaga con posata accuratezza, mentre Cesare è tormentato dai dubbi. C’entra forse il comune passato? I conti ancora scoperti con la mafia locale? Oppure deve concentrare i sospetti più in là, magari sui movimenti poco accorti di un giovane del paese, Sergio, che vive con un padre anaffettivo sino alla crudeltà, cercando una sua via di fuga. Che forse il ragazzo trova quando in una baita tra i monti trova un gruppo di africani, infreddoliti, affamati, disperati.

L’OPINIONE – Dall’omonimo romanzo di Davide Longo (il secondo, edito da Marcos y Marcos, di una brillante carrera di narratore, drammaturgo, documentarista), un “para-thriller” che con la scusa di un’indagine e di un delitto da risolvere, in realtà vuole scavare tra le scabre psicologie della gente di montagna, in particolare di un uomo con il cuore in inverno, semicongelato dalla pena.

Volto segnato da una cicatrice e dalla barba ispida e trascurata, il Cesare di Lo Cascio si muove con la torva disperazione di un’anima che cerca pace e ancora non lo sa, a cui Lo Cascio sa regalare una fosca asciuttezza che esplode in improvvisi scatti di ira, tra una sigaretta e una smoccolata in dialetto. Ed è in effetti una delle due cose estremamente positive di un film che denota la provenienza documentaristica del suo autore, l’aretino (residente in Svizzera) Nicola Bellucci (Grozny Blues, 2015), alla sua prima opera di fiction.

Le splendide valli innevate del Piemonte (Val Varaita, nel cuneense) e del Canton Ticino (Val Bavona) regalano infatti quel clima un po’ fisso, tra il metafisico e l’austero, capace di segnare anche coloristicamente la fissità e il senso di chiusura di un mondo non definiremo isolato, ma con le sue rustiche autonomie. Coproduzione italo-svizzera, con contributo delle regioni Piemonte e Lazio; un cast artisticamente misto (efficace la commissaria interpretata da Ursina Lardi con la sua “stanchezza” hard boiled), che ricerca anche il dialettale (e Lo Cascio se la cava bene!), in cui compaiono anche, come “special guest” (più macchiette che altro) Paolo Graziosi e Peppe Servillo.

Un’opera dignitosa, benissimo fotografata, che avrebbe funzionato ancor meglio con più furba attenzione al lato detection e magari qualche colpo di vivacità (registica? Narrativa?) a fare da contraltare all’aura depressiva che ogni tanto pare avere il sopravvento. Era stato presentato all’ultimo festival di Torino, ora esce con i suoi paesaggi innevati nel cuore dell’estate, strategia o necessità?