Sollevarsi da terra, dal deserto, prendere il volo. È la chimera di Bardo, il nuovo, atteso film di Alejandro G. Iñárritu (anche sceneggiatore con Nicolás Giacobone), presentato in concorso alla 79ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ed è con questo volo (o la sua ipotesi? O il suo sogno?) che si apre il film-flusso onirico di tre ore: ma l’Icaro della scena lo vediamo solo come un’ombra, sul suolo di un Messico da cui lo sguardo non si può staccare, terra madre-matrigna impossibile da abbandonare una volta per sempre in favore di cieli utopicamente senza confini. Anche se, forse, sospesi in aria si può cambiare prospettiva, (ri)abbracciare finalmente in uno sguardo la vastità di quell’origine dove tutto, oltre a iniziare, finisce.
L’ombra è quella di Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho), giornalista e documentarista messicano adottato (fino a un certo punto) e acclamato dai prepotenti vicini statunitensi, vittima di un successo che considera ormai il suo più grande fallimento. La sua bolla di privilegi acquisiti è un limbo che gli impedisce di ritrovare una connessione autentica col popolo del Paese nativo, delle cui sofferenze e della cui irriducibile dignità, da bravo intellettuale borghese ricco e progressista, vorrebbe sentirsi partecipe e portavoce. Si muove per restare bloccato, Silverio, anche nella sua vita affettiva: tra la distanza con la figlia più grande, i conflitti con quello adolescente e il fantasma di un altro ancora, morto neonato (o forse rifiutatosi di nascere), che grava ancora sul rapporto con la moglie. Mentre la vecchiaia incombe, come gli ricorda l’eco di un padre defunto di fronte al quale appare ancora un bambino con la testa d’adulto.
Inevitabile domanda: quanto c’è, in questo personaggio e nella sua parabola, del regista Premio Oscar per Birdman e incoronato (a torto o a ragione) dai tempi di Amores Perros come il messia laico del nuovo cinema messicano che ha conquistato Hollywood (e da essa è stato un po’ conquistato)? Il diretto interessato ci suggerisce, in risposta, di non restare ancorati alla lettera dei fatti che Bardo ci presenta. Questi, non a caso, sono un vortice di episodi surreali e sfasamenti temporali che professano anzitutto il loro essere artificio. Perché, confessa il sottotitolo del film (che è anche il titolo dell’ultimo lavoro di Silverio), siamo di fronte al “racconto falso di alcune verità”. Ossia, nelle intenzioni del cineasta, le verità di un percorso emotivo tortuoso e denso di contraddizioni, fra arte, politica, amore, sesso e identità in crisi.
Insomma, viaggiamo ancora dalle parti del Michael Keaton ex divo dei cincecomics di Birdman. Anche lui proteso a spiccare il volo (impossibile?) verso una sublimazione etico-estetica che chiuda fallimenti, inadeguatezze, compromessi col sistema, etichette di un mondo dove ti venerano e odiano ma (quasi) nessuno ti capisce. Stavolta, però, Iñárritu ha alzato la posta (col supporto del colosso Netflix, dove il film approderà dopo l’anteprima al Lido), nella forma e nei temi. (Sovr)abbondando in tutto e mettendo in gioco elementi tanto più vicini al proprio vissuto – a partire dal rapporto ambivalente col “suo” Messico, forse l’aspetto più interessante e riuscito del film. Con sequenze come quella della visita all’ambasciatore americano o dell’intervista impossibile a Hernán Cortés, dove la satira acida, il gigantismo visionario e l’autobiografia emotiva s’incontrano senza mangiarsi a vicenda.
Ciò che non sempre accade in un film la cui scalata al cielo è gravata dal carico di materiali, ambizioni, debiti con i maestri passati (a cominciare da Fellini, invocato da Iñárritu come nume protettore di questo suo personale 8 ½) e con i propri stessi vezzi (vedi l’uso-abuso dei grandangoli). È il limite di questo canto meta-biografico del bardo messicano. Che comunque non smette di offrirci brani di devoto, spiazzante, avvolgente amore per il cinema.