Sitges 2023 celebra Lamberto Bava: «oggi si racconta tutto alla stessa maniera»

Il regista parla di Mario Bava, Deodato... e Zampaglione

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Lamberto Bava a Sitges 2023

“Certe cose non me le ricordo più, sono passati un po’ di anni, ma mi fa piacere ci sia tanta gente a sentirmi ancora parlare” dice Lamberto Bava dopo aver ricevuto il premio Màquina del Temps del Festival Internacional de Cine de Cataluña di Sitges 2023. Rappresentante di una tradizione di cinema horror nazionale che in Spagna e nel mondo gode ancora di grande considerazone e rispetto, e attenzione visto in quanti hanno approfittato dell’occasione per recuperare i suoi La Venere d’Ille del 1978 e La maschera del demonio, remake del 1989 del film del padre, che il regista ricorda sempre con grande amore.

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Il mio era un padre che stava quarant’anni avanti agli altri genitoriracconta Lamberto Bava del padre Mario. – La mattina se non volevo andare a scuola mi dava un libro da leggere, o direttamente il libretto per le giustificazioni delle assenze. Io andavo a scuola, ed ero pure abbastanza bravo, ma era per dire che c’è sempre stato un rapporto di complicità. Lo ricordo sempre con grande affetto. Anche quando son andato a vivere da solo, se volevo andare a trovare qualcuno andavo da mio padre. Era un amico. Una persona che ti metteva sempre nelle condizioni di capire qualcosa”.

Ancora oggi il cinema horror italiano continua ad avere un suo pubblico, convinto che fosse più violento e grottesco di altri, concorda?

E’ così. Facendo il confronto, il cinema degli Stati Uniti ha sempre avuto più soldi, quindi noi dovevamo metterci qualche altra cosa. Oggi anche loro hanno superato certe barriere, per me bigotte, ma all’epoca noi ci difendevamo con l’ingegno e la violenza, facendo vedere cose forse anche raccapriccianti… Che però raccontavamo meglio la nostra epoca, visto quanto sono stati duri gli anni ’70 in Italia.

Quanto al cinema di genere italiano di oggi, invece?

Non lo conosco molto bene, ultimamente, dal Covid in poi, vado poco al cinema. Mi capita di vedere qualcosa a qualche festival. Come è stato qui per The Well. Non è forse tra i giovanissimi, ma conosco il cinema di Zampaglione, del quale avevo visto anche Shadow. Federico ha un pregio, essendo uno famoso per altre cose, come cantante, quando fa un film è davvero per l’amore per il cinema horror, è un vero patito.

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Le piattaforme di streaming possono aiutare in questo senso?

Io sono legato al cinema da sempre, da tutta la mia vita, ma essendone abbastanza fuori da qualche anno penso sia che non sparirà sia che certo non è piu come una volta, quando era lo spettacolo per eccelleza. Oggi le piattaforme danno la possibilità di fare tanti più film che negli anni passati, come all’inizio degli anni 2000, almeno in Italia. In streming guardo molte cose, ma non è che trovi tantissimo. Una volta non era così, ma oggi ormai tutti i film e le serie che vedi sono sempre basati sui presupposti che insegnano a scuola, ne vedi uno e li hai visti tutti, raccontano tutto alla stessa maniera, e non mi piace, si perde di personalità.

Quentin Tarantino l’ha mai ringraziata per il Cani arrabbiati cui si è ispirato per Le iene?

A quanto pare Tarantino ha fatto Le iene pensando a come avrebbe dovuto essere Cani arrabbiati, un omaggio al film di Mario Bava, del quale però non ho mai parlato con lui. Quello è un film che chi ama il cinema di mio padre deve vedere, se non l’ha già visto.

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Un film, Cani arrabbiati, con una storia molto particolare…

Si tratta di un film atipico nella cinematografia di mio padre, un noir. Che nasce dal fatto che leggeva di tutto, soprattutto i gialli mondadori, dove oltre a quella principale c’erano sempre delle altre piccole storie. Ricordo che un giorno venne da me per dirmi di leggere le tre paginette di una storia che si chiamva “L’uomo e il bambino” nella quale si raccontava in tempo reale un fatto, poi portato nella sceneggiatura, che si svolgeva nell’arco di un’ora e mezzo. Il produttore dell’epoca, la Loyola Films, comprò i diritti per il film, che girammo con varie vicissitudini, ma al primo montaggio arrivò la finanza e mise i lucchetti alla moviola, perché intanto la produzione era fallita.
Si fermò tutto per tanti anni, e personalmente parlai anche con il curatore fallimentare che non mi garantiva la salvaguardia dagli altri creditori della società anche se avessi acquistato il film, ma il film restò al pre montaggio, con ancora qualcosa da girare. E così rimase fino a che un giorno, sarà stato 25 anni dopo, mi chiamò al telefono Lea Lander, l’unica attrice donna del film, dicendomi che era riuscita ad avere i diritti del film.  Io le risposi che potevo finirlo con gli appunti di mio padre e che lo avrei finito gratis come omaggio a lui, ma per un anno e mezzo non l’ho più sentita, fino a che non è arrivata una cassetta del film finito, intitolato Semaforo rosso, con un terribile doppiaggio in italiano e nel quale ancora mancavano le scene che si dovevano girare. Ci rimasi molto male, anche perché il film iniziò a uscire in malo modo.
Dopo altri tre anni, almeno, mi chiamò Alfred Leone, produttore amico di mio padre, con il quale fece vari film e che comprò i diritti per gli Usa di tutti i suoi film, dicendomi che aveva comprato lui i diritti e che voleva che io e suo figlio finissimo il film come avrebbe voluto Mario. Preparato il piano di lavoro a Roma, abbiamo girato quello che mancava, aggiungendo un paio di scene suggerite da Leone per il pubblico statunitense – in effetti un po’ appiccicate, ma di pochi secondi – e alcune di repertorio prese da altri film con inseguimenti di polizia, montando le aggiunte e le musiche realizzate da Stelvio Cipriani, ed è venuto fuori un film molto duro che ti tocca veramente. Atipico, come dicevo, ma con scene molto belle, e interessanti.

Prima di Mario, Eugenio, suo nonno, ci racconta anche di lui?

Tutta la mia famiglia è vissuta sempre nel cinema, fino a mio figlio che è da tanti anni assistente alla regia, uno dei migliori. Mio nonno era uno scultore che lavorava a Sanremo agli inizi del secolo scorso, quando arrivò una troupe della Pathé. Quando portò sul set un caminetto in marmo che gli avevano commissionato, per la scena, si innamorò di quel lavoro. Da lì, con dei cugini, fondarono la Sanremo Films… ho ancora una foto con l’insegna tutta fatta coi fiori. Ma all’epoca il cinema si faceva a Torino, dove si trasferì, partecipando a film molto importanti per l’epoca da Cabiria a Quo Vadis, nel quale si diceva che i leoni avessero divorato le comparse. Con la nascita dell’Istituto Luce a Roma, poi, chi faceva il cinema si spostò nella capitale. E lì è continuata la storia della famiglia, con mio padre e me, una storia di cinema horror, o meglio fantastico, in senso lato.

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E il suo di inizio?

Io ero e sono sempre stato, anche se adesso meno, molto timido. Un paio di volte mio padre mi portò sul set, ma io non volevo, ero terrorizzato dalla presenza della gente. Quando mi presentò Aldo Fabrizi, mi guardava negli occhi e mi diceva “stringimi la mano, forte!”.
Da ragazzo, poi, ero un grande fruitore di cinema, andavo a vedere molti film ma senza mai pensare di essere pronto o capace di fare quel lavoro. Fino a che, da più grande, intorno ai 17 anni, andai a vedere mio padre che di notte girava in una villa antica di Roma Sei donne per l’assassino e mi ricordo che iniziai a pensare che quel mondo mi piaceva e a come avrei potuto fare per farne parte. Da lì, tempo dopo, ho iniziato a essere quarto assistente alla regia, poi terzo, poi secondo… Ho fatto una scuola di set, non sono mai andato a scuola di cinema. Quanto agli studi, che dicevo prima, ho fatto anche 3/4 di università, ma poi ho capito che fare l’avvocato non era per me.

Lamberto Bava racconta Ruggero Deodato e Cannibal Holocaust: