5 MOTIVI PER AMARE ANCORA IL SUNDANCE FILM FESTIVAL

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Né con il cinema industriale né con quello inchiodato al passato. Il Sundance Film Festival resta un corpo libero, estraneo, e dimostra di saper ragionare – tossicamente/fuori dagli Studios – sul suono “indie” delle minimajor (anche italiane: nella sezione World Cinema Dramatic Competition, c’è Cloro di Lamberto Sanfelice). Fino alle conseguenze estreme: Amazon presenta pacchetti d’offerta dove l’uscita dei film in sala anticipa la circuitazione su Prime; Netflix, al festival già da una decina d’anni, mette sul piatto 5 milioni di dollari per accaparrarsi il film d’apertura – la commedia sportiva The Bronze – e perde contro Relativity Media (più robusta nella presenza in sala). Mentre Focus Features, Fox Searchlight, Sony Pictures Classics e Weinstein Co. restano classi dominanti nella corsa all’acquisto di opere-fenomeno. Il diritto ad amare il Sundance resta vivissimo, dunque. Ecco perché.

Me and Earl and the Dying Girl , vincitore del premio della Giuria e del Pubblico nella sezione US Dramatic
Me and Earl and the Dying Girl , vincitore del premio della Giuria e del Pubblico nella sezione US Dramatic

1. L’impronta dei tempi (e dei mercati) non finisce nel dimenticatoio: il Monte “Indie”, simile agli Appalachi scalati dalle icone del cinema Robert Redford e Nick Nolte in A Walk in the Woods, attorno a sé ha un ingombro di rocce dure. Proposte finanziare, provenienti sia dallo streaming che dai distributori della vecchia guardia, riconciliano i cineasti “liberi” con un’idea di arte collettiva. La circolazione del denaro non cambia, mutano soltanto le unità produttivo-creative e le formule di distribuzione. Dal VOD al click sul divano di casa. Il movie-biz è sempre più Connected Tv-biz (Apple Tv insegna). I filmmakers e i sales agents sono attentissimi alle mosse di marketing di Amazon.

2. Live stream come quello di George Lucas a confronto con Robert Redford sull’importanza dell’indipendenza – titolo del panel: Power of Storytrasformano radicalmente il modo di intendere il cinema, rientusiasmando i giovani autori. Lucas: «Gli exe­cu­tive delle major non è che siano le per­sone più sofi­sti­cate al mondo; non è un bene essere con­trol­lati da gente meno intel­li­gente di te. Ve lo dico io che non sono molto intelligente… ». Per salvarsi? «L’unico con­si­glio è mirare dritto verso cose fuori dall’ordinario, investire sull’immaginazione. Altri­menti rimarrete prigionieri ».

Tangerine
Tangerine

3. Quest’anno il Sundance lo potevano anche chiamare “Silicon Film Festival”: secondo Mashable.com, a Park City, Utah, le tecnologie hanno disposto un assedio da sgualcire la grana delle pellicole e dei puristi del cinema, con tanto di esplosione di realtà virtuale. Silicon Valley, Silicon Beach, New York, Tokyo e oltre, si sono accaparrati, con i propri loghi, non solo ristoranti e vetrine di Main Street, l’arteria principale, ma gli stessi schermi del Sundance, che a inizio programmazione sfoggiavano Hewlett Packard, Adobe, AirBNB, YouTube e Canon. Come dar torto a Tim Smith, senior advisor a Canon: «Il modo di girare film non è cambiato, è cambiato il modo di farli ». E ancora: «Non siamo qui per esporre i registi a tecnologie innovative, siamo qui anche per imparare da loro ». A proposito di Adobe, presente come sponsor dal 2006, quest’anno ha fatto boom: più di 20 film montati con Premiere Pro CC 2014. E Sean Baker, regista di Tangerine, per filmare ha utilizzato semplicemente un iPhone 5S e una App dal nome FILMiC Pro, scaricabile da tutti a 7,99 dollari.

4. “Diversità”. È questo l’elemento-chiave dell’ultima edizione del festival, secondo Robert Redford. Dal Giorno Uno alla premiazione (il 31 gennaio) possiamo confermare che largo spazio, quest’anno, è stato dato al nuovo ruolo che i film hanno nella società. Ora, a sentire Redford, ci aspettano appuntamenti ancora più spericolati: «Vogliamo letteralmente buttare le mini-troupe nella natura, allo stato brado ». Ci piace.

The Bronze
The Bronze

5. La questione “gender”? Risolta. Oltre il 30% dei film selezionati è diretto da donne. Sarà la differenza fatta, a Hollywood, da Angelina Jolie (dietro la macchina da presa con Unbroken) o l’effetto-Selma di Ava DuVer­nay (scoperta proprio a Park City). Orizzontalmente, le opere “in rosa” al Sundance, quando scelgono una protagonista lasciano respirare la storia e la tavolozza è così completa che Nina Simone (nel docu­men­ta­rio di Liz Gar­bus) può permettersi di non custodire più il segreto del suo bipolarismo, segretamente preservato da una cerchia ristretta di amici intimi. Le fa da contraltare la frangetta Bubble gum-biondo di Hope Ann Greg­gory (l’attrice Melissa Rauch), ex gin­na­sta ferma alla meda­glia di bronzo: nella scena d’apertura di The Bronze, la becchiamo a masturbarsi sulle immagini della storica performance, registrata su un “tape” e messa in play rigorosamente da un TV VCR Combo. Che le mangerà il nastro.

Filippo Brunamonti