“THE BIRTH OF A NATION”: NON CHIAMATELO REMAKE

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Il titolo è il medesimo, certo. L’epoca in cui è ambientato, invece, differisce di una trentina d’anni, quando ancora gli Stati Uniti si stavano avvicinando alla Guerra di Secessione Americana. Ma soprattutto, il punto di vista è totalmente inverso: qui si parla di libertà, di emancipazione, di senso di giustizia. Si parla del così detto #BlackLivesMatter.

The Birth of a Nation, diretto e interpretato da Nate Parker, ha solo nel titolo un chiaro riferimento all’omonimo film di David W. Griffith del 1915, in cui al fianco di un linguaggio cinematografico rivoluzionario, si raccontava in un’epopea di 190 minuti, l’apologia del Ku Klux Klan come ”salvatore dell’ordine” alla fine della Guerra Civile. Appunto, nella pellicola di Parker, al centro della storia – vera e drammatica – c’è Nathan ”Nat” Turner, uno schiavo statunitense che, sapendo leggere e scrivere e conoscendo la Bibbia, divenne un predicatore tra i suoi compagni schiavi. Spinto da un ”volere Divino”, Nat guidò nel 1831 un moto di rivolta, in cui i neri, insorti, massacrarono nel giro di poche settimane un elevatissimo numero di bianchi.

Una sfida difficile, ma voluta, quella di Nate Parker: all’esordio come regista dopo alcuni cortometraggi, si ritrova a sceneggiare, interpretare e produrre un film che, a diverse settimane dall’uscita in sala (7 ottobre negli States, a febbraio 2017 da noi, grazie alla FOX), ha già fatto parlare molto di sé. Tralasciando il fatto che l’uscita, presumibilmente, continuerà a seguire gli strettissimi fatti di cronaca che stanno avvenendo negli Stati Uniti (notizie alla mano, un focolare di guerra razziale), The Birth of a Nation allo scorso Sundance Film Festival è stato un vero e proprio trionfo, portando a casa il premio del pubblico e il gran premio della giuria, aprendo, con anticipo, la corsa a quegli Academy accusati di essere troppo So White. Infatti, a giudicare dall’attesa, la pellicola di Parker pare essere perfetta per gli Oscar, come perfetta lo era la storia, anch’essa vera, di Solomon Northup e di 12 Anni Schiavo, premiata come Miglior Film. Però gli intenti dei film, pur trattando il tema della schiavitù, sono alquanto diversi. McQueen ha fatto della vicenda di Solomon un quadro intimo e privato, di un uomo libero divenuto schiavo; Parker, invece, ha costruito un film molto più politico, controverso in vari aspetti, revisionista in certi sensi, esplicito e collettivo in altri.

Interpretato anche da Armie Hammer, Aja Naomi King, Jackie Earle Haley e Penelope Ann Miller, The Birth of a Nation ha avuto una gestazione lunga e particolare, in quanto Parker, che ha conosciuto la figura di Turner all’Università, ha iniziato a scrivere la sceneggiatura nel 2009. Per capire, forse, la forza del film, basti pensare che Nate Parker, finito di girare Beyond the Lights, si è imposto con i suoi agenti di non accettare più ruoli, almeno finché non avrebbe portato a termine il progetto del cuore. Ha così investito di tasca sua 100mila dollari e, per la produzione, si è affidato ai fondi di Michael Finley, ex-stella dell’NBA, e, pensate un po’, a Tony Parker, playmaker dei Spurs, non nuovo ad avventure cinematografiche e musicali. Girato tra la Georgia e la Louisiana, non appena è stato mostrato al Sundance, le più grandi major di distribuzione hanno fatto a gare per acquisirne i diritti (andati poi alla Fox), facendo diventare The Birth of a Nation uno dei titoli più ”costosi” passati al Festival indie per eccellenza. Del resto, Nate Parker, da sempre vicino a certe tematiche – è stato un volontario nella campagna presidenziale di Obama nel ’08, ed è sostenitore di varie organizzazioni benefiche – con The Birth of a Nation, si affianca ai nuovi autori americani di cui sentiremo molto parlare (insieme a lui, Taika Waititi e Ryan Coogler), riuscendo, ancor prima della release, ad attirare l’attenzione su un film in cui si intrecciano la violenza, la moralità di certe azioni, la lotta per l’uguaglianza e la più attuale realtà. Ecco perché The Birth of a Nation è qualcosa di lontanissimo da essere etichettato come un (semplice ed ingombrante) remake.