“FUOCOAMMARE”: LA RECENSIONE DEL FILM ITALIANO CHE HA INFIAMMATO BERLINO

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Italia/Francia, 2016 Regia Gianfranco Rosi Sceneggiatura Gianfranco Rosi Produzione Stemal Entertainment, 21 Unofilm, Cinecittà Luce Distribuzione Istituto Luce Cinecittà Durata 1h e 48′

In sala dal 

18 febbraio

Isola di Lampedusa, zona di confine tra il mondo dei salvati e quello dei dannati. Come vi si vive? Il film è il frutto di un anno di immersione del regista tra i suoi abitanti, a registrare la quotidianità (la vita del piccolo Samuele, il d.j. locale di musica folk dialettale, il pescatore subacqueo, il medico del paese ed altri) “assediata” dalla dolorosa, insostenibile odissea – per molti mortale – dei tanti disperati africani approdati su barcacce e gommoni in cerca di una diversa possibilità di vita.

Definirlo un documentario non è pienamente calzante, anzi rischia di essere se si vuole anche fuorviante. Fuocoammare raccoglie e assembla in montaggio (curato da Jacopo Quadri) porzioni di racconto, spicchi di realtà, a comporre quasi, più che a narrare esplicitamente, un saggio-taccuino, ricco di impressioni, acquerelli di lancinante dolorosità (i filmati del recupero dei migranti al largo o gli affranti ricordi del medico), alternanze ritmiche tra episodi di “ guerra” per la sopravvivenza e scene di serena accettazione del quotidiano degli isolani, evidentemente decisi a non perdere il proprio diritto alla normalità. È una sovra-realtà in definitiva quello che ci appare, quella che Gianfranco Rosi aiuta a mostrarsi filmando ad esempio il piccolo ma assai espressivo Samuele (ragazzino dall’occhio pigro che al mare preferisce la fionda e i giri nell’entroterra, con la curiosità dell’età e una imprevedibile maturità di dialogo) mimare con le mani e con i suoni una mitragliata verso l’orizzonte, gioco che a quel punto diventa inequivocabilmente simbolico. Film italiano applauditissimo in concorso a Berlino – e chissà quale sarà il suo impatto, così inusuale per ambientazione e distanza – è un’opera interessantissima ed estremamente strutturata (quasi avesse allontanato le irruzioni del superfluo, le suggestioni del sorprendente e il fuori tema) che tra l’altro chiarisce – se ce ne fosse bisogno – che il Leone d’Oro a Venezia per Sacro Gra fu vera gloria e non una vittoria per mancanza di alternative valide.

Massimo Lastrucci