Tra morte e demoni: delusione a Cannes per Haneke e Lanthimos con due dei film più attesi

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Per i fan di Michael Haneke è stata dura, molto dura. Dopo aver strappato il cuore del pubblico e una Palma d’Oro a Cannes con lo straziante Amour, il provocatorio regista austriaco torna in concorso sulla Croisette con Happy End, nuovamente concentrato sui crimini di un’alta borghesia cinica, decadente e sociopatica, barricata dietro anacronistici privilegi. Ambientato a Calais, dove i migranti vengono raccolti in un famigerato campo chiamato the jungle, questa sorta di demoniaca soap opera popolata di anime perdute racconta di una grande famiglia disfunzionale alle prese con diversi problemi e nevrosi.

Sequel ideale proprio di Amour (qui Jean-Louise Trintignan, che ha soffocato sua moglie con un cuscino, e Isabelle Huppert tornano ad essere padre e figlia) il film è una summa di tutte le ossessioni che hanno attraversato il cinema del regista, da Il settimo continente a Benny’s Video e Caché. Nichilismo culturale e indifferenza caratterizzano dunque il mondo in cui Haneke fa muovere i personaggi, ignari della realtà che li circonda. In questo mondo si aggirano anziani decisi a farla finita e bambini assassini, che non esitano a osservare la morte altrui attraverso l’obiettivo dei loro cellulari. Non aspettatevi il lieto fine suggerito dal titolo perché naturalmente non l’avrete, ma lo sconforto di chi guarda non sta in quello che vede, ma in quello che non vede. Il film gira infatti a vuoto su temi già ampiamente esplorati dal regista senza nulla di interessante da aggiunge sull’atarassia dei nostri tempi.

Sommerso dai fischi di critici e giornalisti, Yorgos Lanthimos, in concorso con The Killing of the Sacred Deer fa ancora peggio. Nel film un’operazione a cuore aperto finisce male per il paziente, e il cardiochirurgo (Colin Farrell), uomo dalla vita apparentemente perfetta, decide di dedicare un po’ del suo tempo e del suo denaro al giovane figlio dell’uomo morto sotto i ferri. Ma quello strano ragazzo minaccia di sterminare tutta la famiglia del medico a meno che lui non scelga qualcuno da sacrificare: la moglie (Nicole Kidman) o uno dei due figli, i primi ad essere colpiti da uno strano sortilegio che paralizza misteriosamente loro le gambe. Sembrerebbe un apologo morale sul marciume di una classe sociale protetta da incrollabili certezze, mentre si tratta invece di un racconto horror, spolverato di mitologia, che mette in scena con colpevole cinismo una punizione demoniaca violenta e crudele, dove la catarsi è governata dal caso e dove a colpire più forte è proprio lo sguardo del regista, più diabolico di quello che ha evocato l’assurda maledizione.

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