ULTRÀ, VENTICINQUE ANNI DOPO

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Il miglior critico cinematografico? Il tempo. Le parole e le recensioni passano, i film restano e hanno solo due opzioni: o invecchiano bene oppure male, molto male. Ultrà di Ricky Tognazzi uscì in sala esattamente venticinque anni fa, in un’epoca lontana – oggi mai tanto distante –  in cui non esistevano Internet, Twitter o Facebook, le dirette delle partite la domenica pomeriggio erano un’utopia e le squadre italiane erano di proprietà di presidenti italiani. Oggi, tra cinesi, americani, dirette streaming, dieci stranieri in squadra e calciomercato in diretta, tutto è cambiato, eppure – magia del cinema – Ultrà mantiene una potenza incredibile, uno sguardo lucido, eppure pietoso, sul mondo del tifo e su un pugno di meravigliosi miserabili che cercano disperatamente una ragione di vivere dentro una sciarpa giallorossa. «Ricordo ancora il set, dentro un vagone tagliato a metà, in piena estate a Roma. Sembrava di entrare in un forno», ricorda oggi Ricky Tognazzi, ridendo.

Facciamo un passo indietro: lei veniva da Piccoli equivoci, debutto alla regia, con cui era stato anche a Cannes nel 1989, alla Quinzaine des Réalisateurs. Come le venne l’idea di girare Ultrà

«Fu merito di Claudio Bonivento che, con molta cautela, mi avvicinò, mi fece molti complimenti proprio per Piccoli equivoci e poi mi disse che aveva un film da propormi, qualcosa di completamente diverso. Mi buttò lì solo il titolo: Ultrà. Nient’altro. Come fanno i produttori. Da appassionato di calcio dissi immediatamente sì, mi affascinava il fenomeno sociale del tifo: avevo attraversato le piazze calde della politica degli anni Settanta, il movimento, ma qui si parlava di qualcosa di completamente diverso».

C’era già l’idea di partire da Roma e dalla Roma?

«In realtà no. Inizialmente tentammo di inventare una squadra di calcio, ma non avrebbe avuto alcun senso. Quindi partimmo da Roma per cercare di legare la pellicola a una territorialità profonda. Fu una gestazione molto lenta, complessa, a partire dalla sceneggiatura per cui furono fondamentali due persone: Simona Izzo, che riuscì a osservare il fenomeno da un punto di vista anche femminile, e Giuseppe Manfridi che aveva scritto un monologo a teatro e che in parte si ascolta nel film, quando Amendola si arrabbia al telefono in diretta con quella trasmissione sportiva».

Claudio Amendola era già nel cast, ma uno dei punti di forza di Ultrà sono le facce e le vite degli altri attori, dallo Smilzo di Fabrizio Vidale al Red di Ricky Memphis, qui al debutto. Come li scelse?

«Per dirla alla Zavattini: con il pedinamento della realtà. Facemmo una lunga serie di audizioni in un appartamento di via Castellini, a Roma, con i tifosi che venivano e si confessavano davanti a una telecamera. Nel frattempo, durante una puntata del Maurizio Costanzo Show, io e Simona vedemmo Ricky, manovale che scriveva poesie metropolitane. Era perfetto, spontaneo, immediato. Lo chiamammo, fece il provino, lesse due scene ed era semplicemente perfetto. Avevamo solo un problema».

Quale?

«Che noi avevamo già il buono, Red, interpretato da Claudio Amendola, stavamo cercando il cattivo, Principe, e Memphis tutto poteva fare tranne che il villain. Il ruolo di Principe lo avevamo già proposto a Sergio Rubini, per farne un personaggio ripiegato, malato, quasi alla Un uomo da marciapiede, ma disse no. Sarebbe stato un altro film».

Quindi Amendola in realtà doveva fare Red, il tifoso buono diviso tra la Roma e l’amore per Giuppy Izzo?

«Sì, fu Simona a convincere Claudio, parlandogli del percorso etico e morale, del fascino del personaggio e – non ultimo – della carica erotica del cattivo. Alla fine si convinse».

Un’altra scelta perfetta per il tono del film fu affidare la colonna sonora a Antonello Venditti, che in realtà al cinema aveva fatto poco, solo Troppo forte con Verdone, poteva essere un azzardo…

«Mi avvicinai a Antonello con molta cautela, sapendo che andavo a mettermi con un punto di riferimento della Roma, l’uomo che aveva scritto due inni (Roma Roma Roma e Grazie Roma, nda) quindi non solo con un semplice musicista. Mi chiese di vedere il film, che poi ci avrebbe pensato. A quel punto avevo già il montaggio completo, quindi glielo proiettai. Lui lo vide, si commosse e mi disse una frase che non ho mai dimenticato: “Sei riuscito a entrare dentro i giubbotti di quei ragazzi…”».

Una delle prime cose che appare sui titoli di testa è la dedica a suo padre Ugo: “padre, maestro, amico”, come lo definisce nella scritta.

«Papà se ne andò durante il montaggio di Ultrà (Ugo Tognazzi morì il 27 ottobre 1990, nda). Gli era molto piaciuto Piccoli equivoci e pochi giorni prima della morte mi chiese quando gli avrei fatto vedere il film. Gli dissi che potevo farglielo vedere anche subito, ma che se aspettava un paio di settimane glielo avrei proiettato finito, anche con le musiche inserite. E invece poi quella mattina arrivò quella telefonata e non potè vederlo. Padre, maestro, amico. Non saprei davvero in quale ordine mettere quelle tre parole».

Quello del 1991 era un altro calcio, molto distante da oggi, la Roma era quella di Desideri, Rizzitelli, Nela, Giannini, c’erano ancora solo tre stranieri, un’altra epoca.

«Di fatto lo era, perché non c’erano Sky o Mediaset e se volevi vederti una partita dovevi andare fisicamente allo stadio, non potevi stare a casa sul divano. Ero un modo diverso di vivere il tifo, c’era un bisogno incredibile di entrare in quei colori, di tifare, di fare parte. E c’era un investimento emotivo molto forte per il tifoso».

Finito il montaggio, Ultrà venne selezionato per il Festival di Berlino nel 1991, dove vinse l’Orso d’argento per la regia, ex aequo addirittura con Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme. Cosa ricorda di quei giorni?

«Ricordo Ricky Memphis che durante un’intervista al Tg2 disse: “Come se sta a Berlino? Che ne so, a me me pare de aver accompagnato qui qualcun altro”. Fu una grande emozione, e poi essere premiato assieme a un regista come Demme – che avrebbe anche vinto cinque Oscar con quel film – fu un’esperienza incredibile. Oggi, quando faccio vedere il mio orsetto d’argento a qualcuno, dico sempre che dall’altra parte del mondo Demme ne ha uno uguale e sta cercando di spiegare chi è l’altro regista che lo ha vinto…».