Black Panther, Chadwick Boseman: “Sul set mi chiamavano sua maestà”

L'attore è il protagonista del primo cinecomic Marvel dedicato a un supereroe nero in sala dal 14 febbraio

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«Sul set mi chiamavano “sua maestà”. Chiaramente uno scherzo, ma mi piaceva lo stesso», ammette ridendo il protagonista di Black Panther (in sala dal 14 febbraio) , Chadwick Boseman, 41 anni, alto 1,83, nato in Carolina del Sud, figlio di un tappezziere e di un’infemiera. Sul sito Imdb.com ha crediti non solo da attore, ma anche da scrittore, regista e produttore. Ha lavorato in teatro e Tv, poi è passato al cinema nel 2008 con The Express, biopic del giocatore di football Ernie Davis. Lui era Floyd Little, compagno di squadra della Syracuse University. E da allora si è specializzato in personaggi realmente esistiti: Jackie Robinson, primo campione nero di baseball (42 – La vera storia di una leggenda americana, 2013), il cantante James Brown (Get on Up – La storia di James Brown, 2014), il difensore dei diritti civili Thurgood Marshall, primo afroamericano giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti (Marshall, 2017). Boseman aveva indossato il costume di Black Panther nel film di gruppo Captain America: Civil War. Ora è il primo supereroe nero con la sua pellicola personale.
 Si parlava di questo film da ben 25 anni, quando il candidato era Wesley Snipes. Lei quanto ha aspettato?
Solo tre anni e mezzo, ma mi sono sembrati lunghissimi. Ero a Zurigo, in Svizzera durante il tour di promozione di Get on Up e la Marvel mi ha chiamato. Anzi, a dirla tutta, hanno dovuto fare un ponte telefonico col mio agente perché sul mio cellulare non avevo la connessione internazionale. Preparavano Captain America: Civil War e volevano introdurre il personaggio, per poi lanciarlo in quello che in gergo si definisce stand-alone, cioè un film
autonomo. E la domanda era secca: sì o no? Niente provino? No, ero incredulo anche io. Resta uno di quei rari momenti della mia vita in cui mi sono sentito benedetto direttamente dal paradiso. Non mi è però sfuggita l’ironia del fatto che T’Challa, di cui Black Panther è l’identità segreta, è uno scienziato di fisica e un genio della tecnologia, e io, come dimostrava il mio cellulare, no. Tendo a lasciarlo il più spento possibile: mi sono accorto che aumenta la mia creatività.

Sapeva tutto del personaggio?
Sì, nei miei diari ci sono appunti e schizzi di trama e dinamiche per un’eventuale
storia su di lui, apparso nel 1966, e con più incarnazioni. E siccome io nasco in teatro, pensavo a una commedia, non a un film.

Qual era il punto fondamentale?
Che siccome Wakanda non è mai stata colonizzata, primo passo verso la schiavitù, l’accento doveva essere un misto dei dialetti della zona, non quello inglesizzante di tanti film. Ho fatto molta pratica, per dimenticare il fatto che anche io ho studiato a Londra.

A proposito, dov’è la mitica Wakanda?
In Captain America: Civil War c’è una mappa che lo situa vicino al Lago Turkana, confinante con Etiopia, Sudan, Uganda e Kenya.

Lei leggeva i fumetti da bambino?
No, li ho scoperti all’università. Mi piacevano anche Spider-Man, Batman, L’incredibile Hulk e Iron Man, ma Black Panther era l’unico che mi somigliava…

Cosa altro le piaceva di lui?
Che vivesse a Wakanda, un regno ultratecnologico nel profondo della giungla. E che, oltre che un guerriero muscoloso, fosse così intelligente da essere scelto come collaboratore dei Fantastici Quattro.

È vero che lei voleva essere scrittore e regista più che attore?
No. Ho studiato regia e scrittura creativa per diventare un migliore attore, perché è un
lavoro “circolare”. Il primo comandamento del mio insegnante di regia era: «Come fai
a dirigere un attore se tu non sai come si recita?».

Chi erano i suoi modelli?
Robert De Niro, Al Pacino, Dustin Hoffman, Meryl Streep e, ovvio, i mie “fratelli” Denzel
Washington, Laurence Fishburne, Samuel Jackson e Jeffrey Wright.

Come le è sembrato il mestiere di re?
Complicatissimo. Ho capito il detto “per un uomo buono è difficile essere re”… Seguire le
tradizioni o fare innovazioni? Ed è lecito fare brutte cose per garantire la giustizia e la pace? E decidere fra chi deve vivere e chi morire? Spesso mi sono sentito come Il padrino

 

MARCO GIOVANNINI

(continua su Ciak in edicola!)