Io capitano, Matteo Garrone: «Il viaggio di Seydou e Moussa tra Gomorra e Pinocchio»

Matteo Garrone racconta a Ciak il suo dramma sull’emigrazione, girato dal punto di vista dei migranti

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Seydou e Moussa (Seydou Sarr e Moustapha Fall) sono due giovani senegalesi che decidono di partire per l’Europa, per loro è la terra promessa dove realizzare ogni sogno. In Io Capitano (al cinema dal 7 settembre con 01 Distribution dopo la vittoria a Venezia del Leone d’argento per la regia, il Leoncino d’oro, il Premio Pasinetti, il Premio Civitas e il Premio Marcello Mastroianni a Seydou Sarr), Matteo Garrone accompagna questi ragazzi in un’odissea che, da Dakar, li porta ad attraversare il deserto, subire le violenze dei lager libici fino ad per arrivare alla traversata del mediterraneo: un epico viaggio vissuto tra speranza e sofferenze. Garrone ha scritto la sceneggiatura con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini (che aveva già collaborato a quella di Pinocchio) e Andrea Tagliaferri, ispirandosi alle storie vere di Kouassi Pli, Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia. Il film arriva giusto quattro anni dopo Pinocchio e Matteo Garrone racconta a Ciak la genesi di questo progetto, che definisce come «la più grossa sfida che io abbia mai affrontato e un’esperienza che porterò con me tutta la vita».

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Nel 1996 lei ha esordito alla regia con Terra di Mezzo, sulle storie di emarginazione di alcuni stranieri immigrati in Italia. Ventisette anni dopo Io Capitano è l’ideale chiusura di quel racconto?

Le cose nascono sempre un po’ dalla casualità e dagli incontri, cose che ti hanno raccontato e ti hanno lavorato dentro negli anni. Però in effetti sono partito da lì, ma questa volta il mio è un “controcampo” rispetto a Terra di Mezzo e al mio secondo film Ospiti. Allora, attraverso i migranti, raccontavo il rapporto con l’Italia, qui invece il centro del racconto è il loro viaggio, il racconto epico della loro avventura. È il viaggio di formazione di due ragazzi che inseguono la terra promessa e si trovano ad affrontare una serie d’orrori, è un’angolazione diversa da quella cui siamo abituati. Di solito vediamo i barconi, quelli che vengono salvati, la conta dei morti e l’arrivo a Lampedusa, ma mai quello che vivono durante il viaggio, il loro sconforto, i momenti in cui hanno la sensazione che l’Europa sia a un passo e quelli in cui pensano che non arriveranno mai. Volevo la verità, non il realismo didascalico e il mio approccio è stato lo stesso di Gomorra: far rivivere allo spettatore questo viaggio in soggettiva, attraverso gli occhi di due ragazzi che non partono dalla miseria assoluta, ma hanno le possibilità economiche per affrontare la traversata verso l’Europa. In Africa il 70 per cento della popolazione è fatta di giovani, ragazzi entrati in contatto con la globalizzazione, che hanno i social network e non capiscono ad esempio perché un loro coetaneo francese possa venire in vacanza in Senegal, mentre loro non possano andare in Francia, ma debbano rischiare la vita per farlo.

Seydou Sarr in una scena di “Io capitano”

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C’è un immagine del trailer, con la madre che levita, che fa pensare a una visione fiabesca del racconto.

Io sono dentro il film, non ho la lucidità per fare questo tipo di lettura. La sensazione che avevo girando era però che fosse un punto d’incontro, un matrimonio, tra Gomorra e Pinocchio. Affrontando un tema così drammatico era necessario avere una verità assoluta e grande attenzione a ogni dettaglio grazie ai racconti di chi ha davvero vissuto queste esperienze, ma al tempo stesso sentivo in certi momenti l’esigenza di un’astrazione fiabesca. D’altro canto c’è molto di Pinocchio nel viaggio di Seydou e Moussa: anche loro desiderano andare in quello che sognano essere il Paese dei Balocchi e scoprono loro malgrado la violenza del mondo. Nel loro viaggio è pieno di Gatti, Volpi e di Omini di burro, ma qua e là c’è pure qualche Fatina mascherata. Il film segue due percorsi: quello che parte dall’osservazione del reale e quello legato al sovrannaturale e fiabesco come era in Pinocchio e nel Racconto dei Racconti.

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Come ha scelto il cast?

Questo film non poteva che essere girato in Africa e le riprese sono durate tre mesi tra Dakar e il Marocco, dove abbiamo ricostruito, con un lungo lavoro di documentazione, la Libia, il deserto e a Casablanca i centri di detenzione, terminando nelle acque di fronte a Marsala per le scene sul barcone. Nel cast ci sono attori professionisti e reali migranti trovati in Marocco, che quel viaggio lo hanno fatto davvero e mi hanno aiutato raccontandomi quel che avevano passato attraversando il deserto e cosa avevano subito nei campi di detenzione in Libia. I due ragazzi protagonisti hanno la passione per la recitazione, avevano anche fatto dei corsi nella periferia di Dakar, ma questa è la loro prima esperienza e la prima volta che sono usciti dal Senegal. Il film l’ho girato in sequenza, loro non conoscevano la sceneggiatura per intero perché gli raccontavamo le scene giorno per giorno: volevo che avessero sempre negli occhi il desiderio di arrivare in Europa, ma senza sapere se ce l’avrebbero fatta o meno. È lo stesso metodo usato con Marco e Ciro (N.d’A.: Marco Macor e Ciro Petrone), i due ragazzi di Gomorra che non sapevano che alla fine sarebbero morti e ricordo quanto fu difficile convincerli a morire.

Matteo Garrone sul set

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È stato complesso scrivere la sceneggiatura del film?

Ci abbiamo lavorato sei mesi, è stato un lavoro molto lungo, quasi come un puzzle: prendevamo diverse parti dei racconti che ci piacevano per integrarli in una storia organica. Abbiamo passato giorni a discutere su un aggettivo, ma poi abbiamo tradotto la sceneggiatura in francese e alla fine la raccontavamo oralmente in wolof agli attori! (N.d’A.: lo dice ridendo). Un lavoro lunghissimo che poi in qualche modo si è trasformato, proprio come nelle fiabe che si tramandano oralmente. Per me la sceneggiatura è sempre un pretesto che poi può prendere forma in modo diverso e sono pronto a mettere in discussione, tanto che il film ha trovato una sua forma che mi ha spinto a eliminare ogni simbolismo. Nella parte finale del mare, ad esempio, c’era inizialmente una scena di notte in cui loro vedevano una nave da crociera tutta illuminata con la musica, di cui cercavano di attirare l’attenzione per avere soccorso, ma senza essere visti. Era un elemento simbolico dell’occidente che non si accorge di nulla, ma ormai nella semplicità del racconto del viaggio questo l’avevamo già superato e, anche se dal punto di vista visivo la scena poteva funzionare, non serviva più perché avevamo già raggiunto il nostro obiettivo.

Quale è stata la cosa più difficile di questo film tanto complesso?

La prima parte delle riprese, quando ho dovuto dirigere attori che parlavano in wolof e sul set avevo un interprete che mi traduceva le loro battute. Nel film si parla in wolof, in francese e un po’ in inglese. Per rispetto delle sonorità delle voci degli attori Io Capitano esce in versione originale sottotitolata: il doppiaggio non poteva rendergli giustizia».