Prigione 77 – Parla il regista Alberto Rodríguez: “Le carceri rappresentano il fallimento di una società”

L'acclamato cineasta racconta a Ciak il suo nuovo film (in sala dall'8 giugno per Movies Inspired), sulle battaglie dei detenuti per i loro diritti nella Spagna che esce dal franchismo

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Nella seconda metà degli anni ’70 la dittatura di Francisco Franco cede il passo a un sistema democratico, ma le nuove libertà stentano ad affermarsi nelle carceri spagnole, come ci ricorda  (La isla mínima, 10 Premi Goya) con Prigione 77 (Modelo 77, in sala dall’8 giugno per Movies Inspired), ambientato in un penitenziario di Barcellona dove poveri, immigrati, omosessuali e dissidenti continuano a vivere ostaggio di un regime brutalmente autoritario. E dove i detenuti iniziano ad organizzarsi per migliorare le loro condizioni, e per un’amnistia che segni una reale discontinuità col passato. Ne abbiamo parlato col regista.

Che importanza ha avuto per te il momento storico rievocato nel film?

Molta, anzitutto per il senso di libertà che si respirava, in un Paese governato dai militari
per quarant’anni. Il patto che ha portato alla democrazia è stato però condizionato da chi era ancora al potere. Adesso, quando in Spagna si propongono riforme progressiste, ci si oppone richiamandosi a quanto pattuito allora, cioè in una fase su cui ha inciso la gente del vecchio regime. Oggi poi ci sono vari tentativi di riscattare la memoria dei morti nella guerra e dei fatti avvenuti durante la transizione: ma una parte di Paese, fondamentalmente la destra, non vuole se ne torni a parlare, sostenendo di aver già chiarito tutto all’epoca.

I protagonisti rimandano a persone reali? E come hai scelto i due interpreti?

Benché ispirati a due personaggi reali, sono il risultato di un insieme di racconti ascoltati in fase di documentazione. Con Javier Gutiérrez, dopo La isla minima, volevamo tornare a lavorare insieme, perché ci capiamo ed è un attore straordinario: ha dovuto solo mettere su un po’ di peso – cosa per lui ottima dato che ama mangiare – e un po’ di capelli finti! Di Miguel Herrán avevo visto solo una stagione de La casa di carta, ma ha fatto un provino fantastico e durante la pandemia abbiamo chiacchierato a lungo su Skype, lì ho capito che aveva colto tutto della storia.

Dove avete svolto le riprese e come avete lavorato sulla claustrofobica ambientazione carceraria?

Abbiamo scelto di raccontare tutto dalla prospettiva dei detenuti, dall’interno. È angosciante quando entri in carcere e senti le porte chiudersi dietro di te, ti viene la paura che non ti faranno più uscire. Il film è stato girato nella vera prigione dove sono avvenuti i fatti, e siccome abbiamo cominciato a lavorarci nel 2015 e il carcere è rimasto aperto fino al 2017, ci sono voluti due anni per iniziare le riprese.

La condizione delle carceri spagnole oggi è migliorata?

Si può dire di sì, per aspetti come l’igiene e la sanità. Ma le carceri continuano a rappresentare il fallimento di una società, l’ultimo anello di una catena. So ad esempio che nella prigione di Siviglia non c’è l’aria condizionata, e quest’anno abbiamo raggiunto 45 gradi! Oggi come allora, poi, in carcere ci va chi non ha possibilità. E il patto con gli eredi del franchismo ha portato la democrazia senza vera giustizia sociale.