Il signor Diavolo, il ritorno al “gotico padano” di Pupi Avati: la recensione

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Il Signor Diavolo

Il signor Diavolo Italia, 2019 Regia Pupi Avati Interpreti Gabriele Lo Giudice, Filippo Franchini, Lino Capolicchio Distribuzione 01 Distribution Durata 1h e 26′

In sala dal 22 agosto

LA STORIA  – Roma, 1952. “Il ministero ha bisogno di lei. Un caso delicatissimo”. Così, il modesto ispettore Furio Momenté viene inviato nel cattolicissimo Veneto a indagare su un assassinio commesso da un ragazzino ai danni del figlio di una ricca signora di città che minaccia di aprire una campagna politica contro la domina e padrona della regione, la DC. In effetti la questione appare al funzionario da subito ancor più inquietante di quel che sembrava da lontano. Il morto, Emilio, è uno sventurato, pazzo e deforme (ha una dentatura come quella del maiale), accusato a suo tempo di aver sbranato la sorellina; il giovane assassino Carlo sostiene di averlo ucciso (con la fionda!) perché quest’ultimo era nientemeno che il demonio, anzi il “Signor Diavolo”” (come suggerisce di appellarlo il sacrestano, perchè “le persone cattive bisogna trattarle bene”). In effetti nel paesino lagunare, grava una cappa inquietante, sinistra, intrisa di superstizione e misteri sepolti nel tempo.

L’OPINIONE – Approdato alla gloriosa età degli 81 anni, Pupi Avati, senza tirare i remi in barca acciaccato dalla senescenza, si rifugia comunque nei suoi terreni più congeniali, la campagna padana (riprese tra Rovigo e Grado) e le sue superstizioni, per girare un “filmettino” circondato da tanti suoi attori e con la forza di un mestiere che ha le stimmate e la autorevolezza della tradizione.

Le caratteristiche del suo cinema ci stanno tutte: quell’odore di sacrestia e cose antiche, quella sottile antipatia diffusa tra i personaggi (quasi sempre i suoi tipi sono cattivi o, quando non lo sono, fragilmente mediocri e dimessi), il gusto per il particolare così particolare da apparire persin gratuito (le calze perennemente smagliate della signora, peraltro ottimamente interpretata da una Chiara Caselli torva e determinata). In più si nota la distribuzione a ventaglio di voluti ammiccamenti ad altri film di genere, e non solo quelli del suo “gotico padano”, ma anche quelli del grande cinema di genere straniero.

Se la storia è decisamente più originale nei dettagli che non nel suo plot vero e proprio (interessante comunque quel tentativo di legare il soprannaturale alla spicciola strategia della politica nazionale e inquietante il macabro quando sgorga dal realismo quotidiano, vedi i denti strappati – trucchi firmati Sergio Stivaletti – la canonica e la sua polvere, il detto e non detto dei personaggi che non si sa mai quanto siano consapevoli), il peraltro dignitosissimo (per cura e tecnica) horror non riesce a compiere mai il salto verso una dimensione di paura e incantamento, tradito probabilmente dalla sua stessa dimensione di “gioco in famiglia”. Il cast assembla vecchi avatiani, che si rivedono con rispetto e tenerezza (Bonetti, Capolicchio, Cavina, Haber, un non facilmente riconoscibile Roncato che sospettiamo ormai da tempo di essere un attore molto più completo e fine di quel che ci ha fatto vedere nella sua scanzonata carriera) e tanti attori più o meno locali scelti più per la loro fisiognomica che non per la capacità di creare un’amalgama di recitazione.