MARGUERITE E JULIEN

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Nel cuore del ‘600, i fratelli Julien e Marguerite de Ravalet di nobile lignaggio si amano in maniera totale e moralmente inammissibile. Invano genitori (pur illuminati per i tempi) e zio prete cercano di dividere i due giovani. L’allontanamento per lo studio, un fidanzamento naufragato, un matrimonio forzato con un esattore delle tasse: tutto inutile, i due sfideranno convenzioni e la legge in una fuga disperata verso l’Inghilterra e nuove identità.

“Tra 10, 100, 1000 anni l’incesto è e resterà un crimine” afferma un personaggio. Ma quando l’amore è assoluto supera ogni barriera (culturale e/o naturale) sino ad accettare ogni conseguenza, anche la più estrema, ribatte la regista Valerie Donzelli, che pochi anni fa ci entusiasmò con La guerra è dichiarata, abrasivo dramma autobiografico di malattia e vita vissuta. E tanto per ribadire l’assoluta atemporalità del narrato e della questione, scardina la vicenda (realmente accaduta) dal suo contesto storico, introduce “incongruenze” dentro (elicotteri, il suono di una sirena, un calciobalilla) e fuori testo (musiche modernissime elettrosoul o vintage ’60). Non solo, per sottolinearne una melodrammaticità che punta più all’esemplare e al simbolico che non al naturalismo, gira sporco e ansiogeno, alternando primissimi piani e campi lunghi, iniziando le sequenze spesso con tableaux vivants e facendo sparare ai due interpreti principali (la solare Anais Demoustier e lo stopposo-tenebroso Jérémie Elkaim) e al resto del cast (in cui spicca una Geraldine Chaplin formato arpia) frasi in stile Baci Perugina: “La vita è un privilegio, non te ne privare, non ce ne privare” oppure “anche se avrò solo le briciole di te, preferisco questo a niente tutta la vita”. Purtroppo la cineasta forza troppo la mano e la ricerca della provocazione intellettuale a tutti i costi, magari snobbando regole elementari (se si usano dei bambini come espediente narrativo per introdurre o legare la storia, non si possono poi abbandonare senza spiegazione a metà opera), più che ammaliare per l’innegabile virtuosismo, annoia e maldispone.