Festa di Roma, Francesca Comencini ci porta Dove va il western

Nel giorno del suo Django, la regista della serie Sky parla del genere che ama

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Django western Francesca Comencini

Senza nulla togliere agli altri, tra gli incontri previsti dalla Festa del Cinema di Roma 2022 nell’ambito della sezione Paso Doble quello affrontato da Francesca Comencini e Gabe Polsky potrebbe essere forse il più suggestivo. Per molti, e non solo i fan del genere citato dal titolo – Dove va il western? – o per i curiosi attratti dall’operazione firmata dalla regista (e direttrice artistica) di Django, che nel programma della kermesse capitolina hanno sicuramente potuto godersi l’adattamento del secondo del Butcher’s Crossing del 1960 di John Edward Williams.

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Una “operazione d’autore” viene definita quella che vedremo a gennaio 2023 su Sky, che riprende un personaggio iconico inserendolo in un contesto classico, ma che – come tutti i grandi western – parla alla sensibilità moderna di temi universali, che ancora oggi sono particolarmente d’attualità.

“La serie ha molti temi che riguardano il nostro tempo, su tutti quelli relativi alla diversità, perché ognuno è il diverso di qualcun altro”, e del femminile, visto che tra i protagonisti spiccano le due donne interpretate da Lisa Vicari e Noomi Rapace, “Sarah ed Elizabeth, l’antagonista, due personaggi controversi, duri, che mi piacciono molto”, dice la regista, che lega l’origine del progetto alla sua stessa passione per il genere western.

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“Django è un po’ una costola di Gomorra – dice, raccontandone l’origine. – Stavo girando uno degli episodi di Gomorra, uno completamente diverdo dagli altri, l’unico che non si svolgeva in città ma in un paesaggio naturale, e ho pensato di farlo come un western, con quel ritmo. Quando i produttori lo hanno visto a montaggio finito, dato che avevano già in sviluppo questo progetto, me lo hanno proposto”. “Adoro i western, soprattutto quelli degli anni ’70. Sono una appassionata – confessa. – Quei film sono stati film molto politici, che hanno parlato dei conflitti di quegli anni. Non a caso Sergio Leone li chiamava ‘favole per adulti’, nelle quali si cercava di esorcizzare i pericoli che si sentivano all’epoca”.

Ma per fare un western moderno sembra impossibile non guardarsi alle spalle, come si evince dal racconto di entrambi… Ho cercato di dimenticare Leone, anche se ci sono degli omaggi, umilissimi. Ho cercato di seguire il racconto scritto, la sua modernità, e dimenticare questi riferimenti. Ho cercato di rispettarli e omaggiarli nelle sparatorie o con riferimenti che fossero non pretenziosi, di non scimmiottarli. Ci ho pensato un po’, ma non troppo” dice la regista italiana. Alla quale fa eco il collega, autore di un film definito “di una classicità cristallina”: “Il film è tratto dal romanzo omonimo, che mi ha colpito per l’idea del protagonista che abbandona gli studi ad Harvard in cerca del senso della vita usando il viaggio come modalità per conoscere il mondo. E come lui anche il cacciatore di bisonti interpretato da Nicolas Cage, che incontra e che sono 10 anni che aspetta l’opportunità giusta per trovare un branco… Ciascuno di noi ha un sogno da raggiungere nella vita, una ambizione”.

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Intanto quella di realizzare un western. A modo proprio. “In comune con il film di Corbucci c’è il fango, ché allora Django fu uno dei primi western piovosi, pieno di fango. Il motivo è semplice, avevano poche settimane e piovve sempre, per cui si Sergio si trovò costretto ad ambientare la storia in un mondo pieno di fango. E nella serie è così. Per il resto, in comune c’è lo straniero, un essere refrattario al potere, ribelle. La cosa più intrigante, tra tante che mi hanno appassionato, era la possibilità di raccontare un antieroe in crisi, con la sua mascolinità e col suo essere padre, il suo essere stato deludente come uomo. Mi sembrava una decostruzione interessante per me, anche come donna”.

“Volevo fare un film di genere, diverso – dice ancora Gabe Polsky. – Ho visto Qualcuno volò sul nido del cuculo, Apocalypse Now e film che esulassero dal wester per cogliere la natura umana, prima che studiare il rapporto dei bisonti con i protagonisti. Ho cercaro di non concentrarmi sul fare un western, con il quale da ragazzo non mi identificavo molto. Per me l’aspetto importante era la storia, non seguire un genere. Quello è uno strumento di navigazione, per identificare un fim, ma non volevo fare cose fatte in passato”.

“Mai avrei sperato di poter partecipare a questo gioco, un sogno sconfinato per un regista, malgrado avessi paura delle sfida, perché i registi cui si richiama sono immensi. Poi quando ho visto la sceneggiatura, ho sentito la volontà di rendere loro omaggio e insieme di parlare della contemporaneità, come hanno fatto quei cineasti, e ho detto di sì”, conclude, prima di aggiungere “dopo Gomorra e Django non ho più paura di niente!”.