I volti della realtà negli ultimi corti in gara allo Short 2023

Il nostro racconto dei lavori proiettati nella sezione competitiva del festival veneziano tra il 24 e il 25 marzo, dai doc Devil’s Chanter e Avt’une alla Cina di Below the River, passando per il Messico di Any Place.

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Rappresentare il reale è la posta in gioco degli ultimi corti presentati al Concorso Internazionale di Ca’ Foscari Short Film Festival tra il 24 e il 25 marzo. La chimera che la settima arte insegue sin dalle origini prende in questi lavori le forme di storie e sguardi su altrettanti luoghi del mondo. Dimostrando tanto più come la capacità del mezzo cinematografico di restituire e rielaborare i fenomeni del nostro presente sia (ancora) una questione centrale, per le nuove generazioni di filmmaker qui in gara e non solo.

La fiction, non a caso, ha ceduto più di una volta il passo al documentario, sin dal primo concorrente proiettato il 24, Ördögmuzsika – Devil’s Chanter di Karim Hema (SZFE – University of Theatre and Film Arts, Budapest), sulla realizzazione di una cornamusa ungherese tradizionale, in un mosaico di dettagli, suoni e piani temporali che si intersecano in una mimesi anche emotiva, lasciando che a parlare siano la consistenza del legno, i passi di una danza o il volto di un artigiano.

Un’immagine del corto documentario Devils’ Chante, in concorso allo Short.

Una fiaba senza incursioni nel soprannaturale è poi quella del doc visto il 25, l’armeno Avt’une di Anie Grigorian (Yerevan State Institute of Theatre and Cinematography), tutta raccontata dal protagonista dodicenne. Che canta senza enfasi l’elegia di una cultura, quella Yezidi di un villaggio in via di abbandono, che mantiene saldo il legame col divenire ciclico delle stagioni e gli elementi della natura. Fuoco, acqua, cielo e terra nutrono le immagini del film e la fantasia del ragazzo, protesa a ridipingere, letteralmente, gli spazi di(s)messi che lo circondano.

Non che siano mancati, anche stavolta, esperimenti audaci ai confini dei codici di genere: basti pensare alla divertente parodia dell’immaginario fantasy nell’olandese Questbound – Forbidden Ventures of the Undead Soul di Marlén Ríos-Farjat, Alexander Bierling e Owen Buckley (Hogeschool van de Kunsten, Utrecht): tra didascalie e dialoghi autoironici, contaminazioni con il videogame (cui sembra rimandare la stessa tecnica d’animazione digitale) e inaspettate love-story BDSM.

Ed è una (anomala) storia d’amore anche la rom-com natalizia russa Aglaya, s Rozhdestvom! – Aglaya, Merry Christmas! di Elizaveta Alexandrovna Dorozhkina (Moscow Film School), al centro una studentessa morta e resuscitata e il suo collega studioso nerd di fantasmi e zombie. Non manca nemmeno qui la distopia, decisamente tra le forme chiave della cinematografia di oggi (e domani): contornata di riflessi horror nel tedesco-messicano Volver al sur – Returning South di Sofia Ayala (German Film and TV Academy Berlin), dove un tormentoso cammino di ritorno e rito di sepoltura si trasforma in un gioco crudele alla Squid Game, chiudendosi in un finale tra i più cupi ed efficaci di quelli visti allo Short 2023.

Ma è, come si diceva, il ritorno alla realtà a rubare la scena nelle ultime giornate della rassegna veneziana, come pare dirci emblematicamente il filippino See You Yesterday di Ethan Dela Cruz (Siena College of Taytay), tra le opere più interessanti dell’intero programma di Short per capacità di tradurre il suo nucleo tematico in stile. Così, la tentazione per il giovane Gabryel di negare le ferite di una famiglia disfunzionale e di una società violenta si configura come il passaggio sincopato da una patinata e zuccherosa sit-com alle spente tonalità della vita vera. Che tuttavia può riscattarsi conferendo ai vari momenti della propria storia un senso positivo, lo stesso che i parallelismi del montaggio restituiscono a noi spettatori.

 

Una scena di See You Yesterday, tra i titoli in gara allo Short.

Tanti, allora, gli spicchi di contemporaneità portati alla luce nei film che hanno attraversato le giornate finali di Short. Approfondendo ulteriormente la radiografia delle dinamiche migratorie e interculturali: per esempio nella triste e cruda vicenda di Awel Mara – Holy Mother, firmato da Hussein Hossam (Prague Film School), che ci racconta la scissione della liceale Maryam in due identità per lei non conciliabili, tra le imposizioni della famiglia d’origine, musulmana tradizionalista trasferitasi dall’Egitto all’Europa, e i sogni di emancipazione all’insegna di un altro stile di vita.

Il sogno incompiuto di partire è anche quello di un’altra adolescente che s’imprime nella memoria, la Ivana di Homeland of Silence, diretto da Štefánia Lovasová (Academy of Performing Arts di Bratislava). Spaccato di una Slovacchia molto al di qua delle promesse europeiste di progresso, ostaggio invece di prepotenze da epoca feudale. E, nelle guerre meschine degli adulti, pagano il conto anche, e forse soprattutto, i figli. Da cui e per cui, però, si può continuare a sperare in qualcosa di migliore.

La convivenza complessa tra background diversi permette poi a María Claudia Blanco di aggiungere una prospettiva inconsueta al già molto frequentato filone dei ritratti sulla fase acuta della pandemia di Covid: è infatti nelle angosce e nelle frustrazioni di una matura donna colombiana nella Francia di quei mesi che si rintracciano gli spunti meno scontati di Au bord du délire – On the Edge (La Fémis, Parigi). E attorno al piccolo grande episodio di un litigio sull’autobus si riflette sulle gravi contraddizioni di un sistema che il virus ha esacerbato, non ultima la crisi della sanità pubblica in contrasto con la celebrazione degli “eroi” di quel tragico momento.

Una scena di Homeland of Silence, in concorso allo Short.

Quadri sociali all’insegna di un acido umorismo sono poi quelli che emergono dal serbo 9 – 5 di Maša Šarović (Faculty of Dramatic Arts in Belgrade) e dal cinese Píngjìng de tuānliú – Below the River. Tra una grottesca applicazione per muovere una pallina con le espressioni facciali (nel primo) e, nel secondo, la borsa piena di denaro lasciata dal misterioso (e irreperibile) passeggero di una vettura a noleggio, con relativa crisi di coscienza dell’indigente autista con famiglia. E in entrambi i casi si può leggere anche la graffiante e indicativa decostruzione di un genere maschile mai così confuso e irrisolto.

Peraltro, va detto, è stato un cinema fortemente al (e del) femminile quello di Short 2023, mostrandoci la ricchezza e complessità di una leva di autrici che speriamo potrà affermarsi come merita. Lo ha ulteriormente messo in evidenza, fra gli altri, uno dei corti visti il 24 marzo all’Auditorium Santa Margherita, il messicano En cualquier lugar – Any Place di Minerva Rivera Bolaños (Centro de Capacitación Cinematográfica, Città del Messico): tenera e malinconica memoria d’infanzia che riesce a farsi, tra una riunione di famiglia dall’esito amaro e i passi accidentati di un pulcino, anche una meditazione sulla precarietà dell’esistenza.