L’abisso della guerra e i volti della messa in scena nei primi corti in gara allo Short

Presentata il 20 marzo all'Auditorium Santa Margherita (e in replica il 21, ore 15, presso lo spazio InParadiso e il 22, ore 17.30, alla Casa del Cinema) la sestina iniziale dei lavori in gara alla manifestazione veneziana.

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Le maschere e le rappresentazioni della società e dell’esistenza, quelle possibili e impossibili, quelle che (ci) salvano e quelle che ci sprofondano nel baratro, sono un filo rosso dei primi sei corti in gara per il Concorso Internazionale del Ca’ Foscari Short Film Festival. Dove la guerra è anch’essa messa in scena, la più crudele e meno sensata, seguendo i fini insondabili di un potere sempre, letteralmente, osceno, estraneo ad ogni comprensione entro i limiti del quadro. Piuttosto, sono le sue vittime a guadagnarsi il primo piano, e in particolare i bambini, i cui volti e le cui storie ci dicono l’inaccettabilità della nuova corsa ai conflitti armati che qualcuno, oggi, sembra volerci vendere come ineluttabile.

Proprio nella città lagunare che ospita la manifestazione diretta da Roberta Novielli ci porta il primo titolo di quest’anno, La notte (di Martina Generali, Simone Pratola, Francesca Sofia Rosso). Il Carnevale di una Venezia d’epoca e forse senza tempo (impressione accentuata dalla scelta per l’animazione in 2D e dall’assenza di dialoghi che rimanda alla poesia slapstick del cinema muto) è attraversato dalla vitalità irriverente di un Pulcinella la cui parabola riproduce riti di esclusione sociale antichi e contemporanei. E la svolta onirica finisce col confermare la carica eversiva del personaggio mascherato in una corte di maschere senza volto, pronte ad isolare e reprimere il corpo estraneo che denuncia, senza nemmeno saperlo, la loro insufficienza.

Si passa a un’altra, più grottesca parata, con lo sposalizio della black comedy Panique à la noche (Panic at the Wedding, di Haythem Ben Hmida), dedicato non per nulla a «tutti i martiri dell’istituto del matrimonio in Tunisia». Macchina a mano da parodia di un filmino di famiglia per un apologo intriso di umorismo acido e nerissimo, a demistificare la cerimonia da cui emerge un microcosmo di miseria materiale e morale. Dove la donna è (ancora) mero oggetto intercambiabile di una transazione-spettacolo, che deve continuare anche di fronte alla morte.

C’è «qualcosa di sbagliato», allora, dietro una quotidianità domestica e familiare che è anch’essa artificio posticcio, come arriva a capire il protagonista del russo-kazako Something’s Wrong (di Polina Khalenko): la verità per lui, e la dolorosa presa d’atto per moglie e figlia, arriveranno dopo l’acme allucinato di un ritorno del rimosso ai confini con l’horror, che erompe dalle tubature di una routine irreale e del suo ripetersi sempre meno tollerabile. Dietro e dentro la quale, tra luci gelide, suoni stranianti ed eventi bizzarri, si agita il cadavere di una vita che non è (più) tale, per eccesso di alienazione o, magari, per una chiamata al fronte dell’ennesima guerra.

Ed è quest’ultima, segnatamente ed emblematicamente dalle parti di un Medio Oriente martoriato, ad informare espressamente The Borders Never Die (di Hamidreza Arjomandi, dall’Iran) e Khutaa’ab (Father’s Footsteps, di Mohamad W. Ali, co-produzione Siria-India). Complementari (anche) nell’essere il primo un road-movie tra gli esterni devastati e aridi di un inverno della civiltà, e il secondo chiuso nella (a)normalità emergenziale di un interno. L’uno, sulle corde di quella pietas umanista e sobrietà stilistica (anche di fronte all’apice dell’orrore) che la cinematografia iraniana contemporanea non ha da invidiare al nostro Neorealismo, l’altro risolto nei rapporti di forza, di affetti e di spazi di una casa, su cui battono da fuori il frastuono, i colpi e le angosce della danza macabra bellica.

Il cui incombere è tutto scritto sui volti della coppia di profughi al centro del film di Arjomandi, nelle stazioni del loro cammino la cui posta in gioco riguarda (anche, soprattutto) i figli più piccoli e meno responsabili del disastro circostante. Ed è difficile che in questi tragici giorni, il dettaglio più emblematico e straziante della vicenda, la kefiah indossata dall’uomo, non faccia migrare il nostro pensiero alla mattanza dei palestinesi di Gaza (tra bombardamenti, cibo ed energia negati, emergenza sanitaria, esodi forzati e oltre 31.000 vittime, due terzi delle quali donne e bambini) per la spaventosa offensiva militare di un Israele su cui è aperto alla Corte dell’Aja un procedimento per genocidio. Ancora più evidenti, nell’altro corto, i rimandi a un altro conflitto, quello siriano, causa dell’assenza irrimediabile di un padre cui si ovvia, ancora una volta (e non senza un toccante guizzo “chapliniano”), col gioco serissimo delle maschere e della finzione scenica.

Attraverso cui il cinema ribadisce la sua vocazione a reimmaginare il mondo mentre si fa carico di (ri)evocarlo: come fanno i due giovanissimi protagonisti del turco Oyunbozan (Game, Interrupted di Ilayda Iseri), forse l’oggetto più sorprendente di questa prima sestina allo Short 2024, planando con inattesa levità tra Storia (il colpo di Stato in Turchia del 1979) e fiaba surreale, cronaca e fanta-commedia meta-filmica intinta con ironia e malinconia nell’immaginario audiovisivo e sportivo di quegli anni. Così, di fronte alla morte privata e pubblica, la fantasia infantile risponde con l’esplosione prima circense e poi addirittura fantascientifica di una creatività oltre i limiti dello spazio-tempo. Capace di integrare la perdita nel ciclo della vita come di irridere la mortifera seriosità degli adulti (Khomeini è un po’ «Darth Vader» un po’ il fantasma del vecchio nonno) e, persino, di (ri)scrivere una pagina indimenticata (e cara all’Italia) dei Mondiali di Calcio.