Wanted, Fabrizio Ferraro e la «prigione trasparente» del potere

Abbiamo intervistato il regista del film presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle. Nel cast, Denise Tantucci, Chiara Caselli, Caterina Gueli, Giovanni Ludeno e Fabrizio Rongione.

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Uno scenario distopico, un sistema autoritario dai contorni indefiniti, che rastrella e deporta chi è considerato improduttivo o non collaborativo. Una donna arrestata (Denise Tantucci) e sottoposta da due funzionari (Chiara Caselli e Giovanni Ludeno) a un lungo, estenuante interrogatorio, in una Cinecittà desolata come il resto della Capitale. Vediamo tutto questo nel nuovo lungometraggio di Fabrizio Ferraro Wanted (prodotto da Marta Donzelli e Gregorio Paonessa per Vivo Film con Rai Cinema), presentato alla Festa del Cinema di Roma, sezione Freestyle. L’unica possibile per un film che scardina le distinzioni tra i generi (oltre alla distopia, il noir e la spy-story) e le regole che li informano, così come le convenzioni del racconto e della rappresentazione cinematografica. Per parlarci del potere, e della non-fisionomia che assume oggi.

«Sono anni che assistiamo a un cambiamento nelle forme del potere, nella loro estensione spaziale e nel loro modo di rappresentarsi», afferma Ferraro intervistato da Ciak. «Queste forme del potere ormai sono in piena sparizione, non ci sono le scorciatoie, le facilitazioni a cui il cinema ci abitua per intrattenere in maniera rilassante, come un ansiolitico per i nostri tempi».

Per il regista de La veduta luminosa e I morti rimangono con la bocca aperta, il potere di oggi è una gabbia di cui però non riusciamo a vedere i confini, rimanendovi tanto più invischiati. Come in Wanted, dove i ruoli di vittima e carnefice si confondono: per il Ferraro «siamo passati da un potere che aveva una relazione con i suoi sudditi, opaca e di difficile individuazione ma molto presente, ad un potere solo “riflettente”, fino alla prigione trasparente in cui viviamo oggi. La trasparenza fa sì che non si riesca a vedere neanche più il nostro stesso riflesso, che era già qualcosa. E in questo modo, il potere ci rende tutti complici, perché siamo tutti interni alla prigione, non c’è più un “fuori” possibile. Ecco perché nel film non c’è tanta differenza tra l’interno della “camera autoptica” dove avviene l’interrogatorio e l’esterno che non porta alcuna fonte di vita».

Le suggestioni del film di Ferraro (che firma anche sceneggiatura, fotografia e montaggio) spaziano dal Covid alla paranoia repressiva (a caccia del nemico esterno e interno) degli ultimi conflitti bellici (ma Wanted è stato scritto prima della pandemia e girato quando ancora la Russia non aveva invaso l’Ucraina). Facendo di questo lungometraggio una «radiografia» dei demoni del nostro tempo, di cui uno tra i principali, che chiama direttamente in causa il cinema e le sue storie, è la semplificazione. «Bisogna avere il coraggio di dire che la semplificazione è un alleato o un artefice della guerra. Finché il dogma sarà quello di semplificare, avremo solo scontri, come succede adesso, mentre le ragioni di ciò che accade sono molto più complesse. Il problema di oggi non è che i cittadini sono ignoranti o cattivi, ma che il linguaggio da noi utilizzato ci costringe a dire “o con me o contro di me”, “o bello o brutto”».

Altra semplificazione da decostruire, per il filmmaker, è allora quella su cui si regge il sistema dei generi cinematografici tradizionali: «Il genere è una forma rassicurante, con dei codici di riferimento, ma se non mantiene più il contatto con le fuoriuscite da sé diventa pura morte, nel senso che non si muove nulla. Il tentativo allora è di entrare dentro le griglie, dentro le prigioni costituite, nel meccanismo, per ribaltarlo. Perché chi fa il cinema ha a che fare con una cosa, di cui ci si dimentica troppo spesso: la luce. E la luce non ha confini, la luce dissolve, ha gradualità. Noi, con gioia, vogliamo stare nella gradualità, nelle dissolvenze, nelle complessità. E far vedere quello che è possibile, nello spazio tra i generi».