Tra i maestri della Nouvelle Vague il regista scomparso lo scorso 29 gennaio era il meno popolare, eppure ci ha regalato indimenticabili pagine di cinema. Ecco qualiÂ
DI VALERIO GUSLANDI
Nello spettacolo, come nella vita, ci sono figure che si muovono in primo piano e altre, non per questo meno valide, che rimangono nell’ombra. La recente scomparsa di Jacques Rivette, lo scorso 29 gennaio, fa pensare proprio a questo. Tra gli addetti ai lavori e gli appassionati di cinema il suo nome è noto, specialmente per chi ha avuto la possibilità di frequentare i festival. Ma per gli spettatori âtradizionaliâ, è stato soprattutto un nome legato a un altro nome: la Nouvelle Vague, il movimento nato alla fine degli Anni ’50 per rinnovare il vecchio cinema francese, considerato borghese e conformista (definito in modo un po’ sprezzante âle cinéma de papaâ). A rappresentarlo alcuni giovani cinefili, diventati prima critici (per i Cahiers du Cinéma) e poi passati dietro la macchina da presa. Quando si pensa alla Nouvelle Vague vengono alla mente i nomi di François Truffaut, Jean-Luc Godard (unico sopravvissuto di quel gruppo), Claude Chabrol, Eric Rohmer, che possiamo considerare i fondatori e, in maniera più esterna, Alain Resnais, Louis Malle, piuttosto che Roger Vadim. Rivette fa parte dei fondatori, come Truffaut era un accanito cinefilo, e una volta traferitosi da Rouen, dove era nato nel 1928, a Parigi, è stato un assiduo frequentatore della Cinémathèque Francaise, luogo di riferimento di Godard e del solito Truffaut, oltre che di Rohmer e di teorici come André Bazin.
Il suo curriculum lo vede approdare ai Cahiers nel 1953 (ne sarà il caporedattore dieci anni dopo), ma presto inizia a fare l’assistente alla regia e a realizzare cortometraggi. E infatti, nonostante si pensi a Le beau Serge (1958) di Chabrol come il film che lanciò la Nouvelle Vague e a I quattrocento colpi di Truffaut come quello che impose il nuovo stile al mondo grazie alla vittoria al Festival Di Cannes del 1959, è in realtà un corto di Rivette del 1956, Le coup du Berger (è il nome di una mossa degli scacchi) a rappresentare il primo vagito del movimento. Il soggetto racconta di un intrigo intorno a una pelliccia che passa di mano tra mariti e amanti, girato nell’appartamento di Chabrol, presente anche come attore insieme a Truffaut, Godard e al futuro regista Jacques Doniol-Valcroze. Da questo momento Rivette si segnala come una voce più riflessiva e intimista rispetto all’immagine dinamica e spavalda rappresentata dai suoi colleghi. Capace di estremo rigore e grande leggerezza, sempre attento a raccontare la vita nelle sue componenti artistiche e nelle sue contraddizioni. Rigore confermato nel primo lungometraggio, Paris nous appartient (1961) che è un mix tra un mistery e una recherche nella Parigi più sconosciuta (ancora camei di Godard e Chabrol). La pellicola dura due ore e venti, così come il successivo Susanna Simonin, la religiosa (1966), tratto da Diderot e ai tempi censurato per la trama che vedeva una monaca prima ritenuta indemoniata e poi vittima delle attenzioni della madre superiora. Il desiderio di cura del regista si riflette nelle durate dei suoi film: L’amour fou (1967), analisi chirurgica in quattro ore e mezzo della vita di una coppia, è presentato a Cannes, ma non vede la strada delle nostre sale. Stessa sorte per Out 1, che parla di teatro e del suo intrecciarsi con la vita in ben 12 ore (poi ridotte a 4).
Importante è Céline e Julie vanno in barca (1974), in cui una bibliotecaria stringe amicizia con una prestigiatrice: tre ore di cinema denso, reso tenue da un tocco di grazia nell’ispirarsi ad Alice nel paese delle meraviglie. Più controverso Duelle (1976), in cui l’ottica leggerezza-profondità viene rovesciata a favore di una vicenda fantastica. Il suo film di maggior successo di pubblico, premio speciale della Giuria a Cannes 1991 è La bella scontrosa, che parla del mestiere del pittore e della difficoltà di riprodurre la realtà ed è tratto da Balzac. Prima del 2009, anno del suo ultimo lavoro, Questione di punti di vista con Sergio Castellitto e Jane Birkin, in cui racconta il continuo rimando fra l’arte di intrattenere (siamo in un circo) e quella di vivere, ci sono altri film di rilievo. In primo luogo i due capitoli di una Giovanna d’Arco (1994) immersa tra luci, ombre e un grande rigore nella messa in scena; quindi Alto basso e fragile (1995), un ritorno alla leggerezza tra realtà e romanzo; Chi lo sa? (2001, sempre con Castellitto), ambientato nel mondo del teatro; Storia di Marie e Julien (2003), che innesta sfumature fantastiche in un melodramma (quale amore potrà esistere tra un orologiaio e un donna già morta?); e infine La duchessa di Langeais (2007), ancora un adattamento da Balzac che, esaminando la passione e la sua arte ingannevole, consente al regista di realizzare uno dei suoi film più belli e completi.