Elegia Americana, ritratto di famiglia in un inferno — Intervista a Ron Howard

L'intervista di Ciak a Ron Howard che dirige per Netflix un dramma domestico tratto da una storia vera e ambientato in una provincia travolta da povertà e degrado.

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Il desiderio di spaziare fra temi e generi diversi non ha mai abbandonato Ron Howard, che infatti negli ultimi cinque anni è passato dall’avventuroso Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick al thriller Inferno, dalle guerre stellari di Solo: A Star Wars Story ai documentari The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years, Pavarotti e a Rebuilding Paradise sugli incendi che hanno devastato la California nel 2018. In attesa che si concretizzino i numerosi progetti annunciati o già in cantiere – Thirteen Lives, The Girl Before, The Fixer, Seveneves – il regista ha realizzato per Netflix, un dramma famigliare dal titolo Elegia americana, disponibile dal 24 novembre, ambientato nella provincia più profonda degli Usa e interpretato da due fuoriclasse praticamente irriconoscibili, Amy Adams e Glenn Close, che si collocano tra le più probabili candidate ai prossimi Oscar.

Tratto dal best seller autobiografico di J.D. Vance, Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis, e scritto da Vanessa Taylor, il film è la storia di un ex marine del sud dell’Ohio (Gabriel Basso), che ora, studente di giurisprudenza a Yale, sta per ottenere il lavoro dei suoi sogni quando una crisi familiare lo costringe a tornare nella casa che ha lasciato anni prima e a fare i conti con un passato che a lungo ha cercato di dimenticare. Il giovane deve infatti affrontare le complesse dinamiche della sua famiglia, originaria degli Appalachi, compreso il suo conflittuale rapporto con la madre Bev (Amy Adams), in perenne lotta contro la dipendenza, e con la nonna Mamaw (Glenn Close), la donna che lo ha cresciuto e incoraggiato a diventare l’uomo che è oggi. Mentre tenta disperatamente di risolvere il problema e tornare a casa in tempo per sostenere un colloquio fondamentale per la sua vita professionale, riemergono i ricordi di un’infanzia in cui il giovanissimo J.D. (Owen Asztalos) cerca di trovare la propria strada schivando l’aggressività di una madre autodistruttiva, in lotta contro la povertà, lo sfruttamento e il degrado sociale.

L’intervista a Ron Howard

In collegamento dal Connecticut, Ron Howard ci ha raccontato il colpo di fulmine per una storia famigliare che in fondo ci riguarda tutti.

Cosa l’ha spinta a trasformare il romanzo di J.D. Vance in un film?

Si tratta di una storia molto personale, ma sullo sfondo c’è una riflessione sociopolitica molto forte e interessante che ha suscitato molte emozioni in me. Era proprio la storia che cercavo, con al centro un personaggio che sentivo vicino per molti aspetti, protagonista di un viaggio e di un dramma famigliare molto intenso. Ho cominciato a parlarne con J.D., una persona di grande fascino, ma solo quando ho scoperto ancora di più sulla sua famiglia ho capito che mi sarebbe piaciuto farne un film ambientato in diversi momenti temporali, i più precari e persino pericolosi della sua vita. Ci abbiamo molto riflettuto insieme e poi ci siamo rivolti a Netflix.

Perché pensa che Amy Adams e Glenn Close siano le attrici giuste per i ruoli di Bev e Mamaw?

Per la loro creatività, il coraggio, la dedizione e la totale mancanza di vanità. Avevo già lavorato con Glenn e ho parlato con chi aveva lavorato con Amy. Questa storia non è basata su un plot, non ci sono buoni e cattivi, ma restituisce un viaggio costellato di molti momenti drammatici e di delicate sfumature. È un film sulla lotta e sulla sopravvivenza. Non volevo solo due attrici brave a interpretare il ruolo loro assegnato, ma due artiste capaci di restituire la vita dei personaggi che avevo deciso di mettere in scena e disposte a lavorare molto duramente.

A proposito di durezza, la scena in cui Bev aggredisce il figlio adolescente è piuttosto brutale.

Le riprese di quella scena sono state un’esperienza fuori da comune non solo per gli attori, ma anche per me. Era importante restituire un’idea di caos e di forte tensione tra i personaggi. Ricordo quanto Amy fosse spaventata da quella scena mentre io cercavo di rassicurarla dicendole: «Non preoccuparti per Owen, lui è un giocatore di hockey, è robusto». E lei ribatteva: «D’accordo, ma è un ragazzino, ha solo 13 anni!». Il risultato è il frutto di uno sforzo comune per una scena che aveva un’importanza cruciale per la storia. Una scena che non avevo voluto provare e che ho filmato da diversi punti di vista, per ottenere uno stile quasi documentaristico. È stato uno di quei momenti di straordinaria creatività e complicità per cui ho scelto di diventare regista.

Gli Appalachi sono uno dei grandi personaggi del film.

Sentivo che quel paesaggio mi era molto familiare, per tante ragioni, e J.D. ama quel posto anche se non ci ha mai vissuto. Mio padre ha lasciato una fattoria durante la Depressione, mia madre veniva da una piccola cittadina dell’Oklahoma di appena 20mila abitanti, mio nonno faceva il macellaio. Non ho mai vissuto in quei luoghi, ma mi sento molto influenzato da quella sensibilità, dalla necessità di avere la forza di affrontare le difficoltà legate, per esempio, alla mancanza di lavoro. Tutti noi facciamo i conti con le nostre radici e possiamo dunque riconoscerci nelle dinamiche della famiglia del protagonista.