«Un italiano contraddittorio e carismatico, pieno di sfaccettature, che dopo aver fatto il suo dovere affondando il naviglio ostile, oppone alla logica della guerra quella del mare che gli impone di soccorrere uomini ormai inermi e in balia delle onde. E li salva per tre volte. Per poi tornare a combattere la sua guerra. Come si fa a non rimanerne affascinati?». Pierfrancesco Favino parla di Salvatore Todaro, il comandante del sommergibile della marina militare italiana realmente esistito e al centro di Comandante di Edoardo De Angelis, in sala dal 31 ottobre con 01 Distribution dopo aver aperto la Mostra del Cinema di Venezia. Abbiamo ripercorso con lui la scelta di interpretarlo, finendo col parlare anche d’altro: il momento difficile del nostro cinema, «l’occasione preziosa che si presenta per rilanciarlo, e che stiamo sprecando», e le sue coraggiose affermazioni del settembre scorso a Venezia sull’importanza che le storie italiane raccontate al cinema abbiano la nostra impronta.
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Quale è il motivo principale che ti ha fatto calare nei panni di Todaro?
Le sue contraddizioni, che poi sono quelle presenti nei caratteri di tanti di noi. E il suo percorso umano. Vive la vita in modo originale, appassionato di spiritismo, esotismo, di arte, di lingue antiche. Eppure sceglie la carriera militare, di appartenere a un ambiente in cui si è chiamati sostanzialmente a seguire regole rigide ed eseguire gli ordini. Disobbedire a queste regole in guerra, pur avendovi giurato fedeltà, per seguire le proprie convinzioni, è un gesto drammatico. Interessante da scandagliare.
Stavolta parli in veneto, e non ritrai un personaggio simpatico.
Lui non era veneto, ma ha vissuto a Sottomarina, nell’Alto Adriatico, dall’età di 5 anni. Sarebbe stato semplice farne l’agiografia, ammiccando un po’. Ma con Edoardo, il regista, non volevamo che fosse un uomo simpatico, o di cui ti innamori perché è un buono. Starà al pubblico decidere se aver preso decisioni in contrasto con gli ordini che aveva ricevuto lo rende un uomo migliore. L’aspetto più interessante a mio avviso è provare a chiedersi perché in quelle condizioni abbia ascoltato la voce della coscienza e non quella delle regole di guerra.
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Ancora una volta la tua adesione al personaggio è totale. È come se ti fossi calato per mesi in una condizione bellica, e in uno dei luoghi più claustrofobici in cui viverla. Cosa ti ha lasciato, a livello personale?
È una esperienza che ti cambia, perché il sottomarino cambia le tue condizioni di vita spazio-temporali, anche se mi rendo conto che al massimo ho potuto lambire quella condizione. Ho assistito a esercitazioni, svolgendone qualcuna anche io, all’Arsenale di Taranto. E la prima impressione, vedendo un giovane ufficiale dirigere il sottomarino, è stata di una concentrazione totale: come se il suo cervello fosse il terminale degli input che arrivano dagli altri componenti dell’equipaggio, ciascuno dei quali è responsabile di un piccolo dettaglio, dal quale però può dipendere la vita di tutti. Sta a lui processare quelle informazioni. E al tempo della Seconda guerra mondiale, chi era in quella condizione sotto il mare, doveva decidere da solo, prendendosi la responsabilità al cento per cento delle scelte che faceva.
Anche questo tuo personaggio, come tanti altri che hai interpretato, compie un percorso personale all’interno del film.
Credo che proprio la scelta fatta con Edoardo De Angelis di evitare le strade più semplici per creare nel pubblico un’empatia immediata con il mio personaggio renda più netto il cambiamento che si determina in lui nel corso del film, dando forza alla storia che raccontiamo. Ripeto: lui prende una decisione di disobbedienza, in tempi in cui poteva costarti carissimo. E ne paga le conseguenze: quando tornò da quella missione, il generale tedesco dal quale dipendeva il suo sottomarino non lo premiò. Fu messo sotto “maggiore attenzione”.Perché aveva disobbedito. E fu decorato con la croce di bronzo, non il più alto dei riconoscimenti. Per poi continuare a combattere.
Emerge una delle domande chiave della tua professione: l’attore deve o no giudicare il suo personaggio?
Non sta a me darne un giudizio morale. Ma posso scegliere un ruolo che offra spunti per pensare.
A proposito di percorsi: su Sky ha avuto grande successo L’ultima notte di amore. Anche lì il tuo personaggio compie una evoluzione all’interno della storia. Cosa ti ha lasciato quel film?
Una grandissima soddisfazione: aver rischiato, in un momento di forte disaffezione del pubblico verso il nostro cinema, con un film di genere che tutti si dicevano convinti non sarebbe andato da nessuna parte. Del successo su Sky sono felicissimo. Mi sarebbe piaciuto anche che i 296 mila spettatori che l’hanno visto il primo giorno sulla pay tv fos- sero prima andati a vederlo al cinema. Ma alcuni di loro me lo hanno scritto: «Peccato non averlo visto in sala».
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Mi sa che questo non vale solo per L’ultima notte di amore, vero?
Lo ha detto Scorsese di recente: si è instaurato un automatismo per cui in sala si va a vedere solo un certo cinema americano. Il resto lo si aspetta a casa. Ma sono pochi i film USA che vale la pena di andare a vedere perché si pensa siano migliori di quelli italiani. E invece, persino un film straordinario come Io capitano deve rincorrere il pubblico. Per fortuna ci sta riuscendo. Ma ci stiamo abituando a pensare che se un nostro film incassa tre milioni di euro in sala, è andata bene. Invece no. Ed è un problema che va affrontato.
È ciò che hai fatto a Venezia, o sbaglio?
Ci ho provato, ma poi mi viene detto che parlo per interesse personale…
Veramente a Ciak, quando hai sollevato il tema di far raccontare a volti italiani le grandi storie italiane usando Ferrari di Michael Mann come esempio di un’occasione mancata, ci è sembrato un gesto di grande generosità. Lo abbiamo anche scritto che stavi facendoti carico di un problema di tutti, spendendo la tua popolarità al servizio del nostro cinema. Poi ci sono state anche interpretazioni d’altro tipo…
Hanno scritto, «e Il Gattopardo allora? Lì c’erano Burt Lancaster e Alain Delon!». Dimenticando che da sette anni a questa parte a Hollywood esistono regole sulla corrispondenza tra storie narrate e attori chiamati a interpretarle. Ma il fatto è che volevo fare altro: spingere i nostri produttori e il nostro sistema cinema a ragionare sulla necessità di proteggere un racconto che è il nostro racconto. E badate: non c’è nulla di sovranista, è un ragionamento sul pluralismo.
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Ripercorriamo quel ragionamento.
Abbiamo sempre meno società di produzione italiane, perché la gran parte sono partecipate se non acquisite da aziende straniere. E abbiamo fatto entrare al tavolo dei produttori delle realtà che non solo distribuiscono i nostri film ma che ci dicono anche come devono essere scritte le nostre storie. E non facciamo niente per impedirlo. Eppure vicino a noi ci sono anche esempi opposti: lo scorso anno un film tedesco, Niente di nuovo sul fronte occidentale, tratto da un romanzo tedesco, diretto da un tedesco, recitato in tedesco da attori tedeschi, prodotto da Netflix, ha vinto quattro Oscar ed è andato in finale per il Miglior film. È successo perché la Germania ha detto “potete investire da noi, ma è una storia nostra, e la facciamo noi”. Io semmai ce l’ho con il sistema produttivo italiano che non fa questo ragionamento. Il che crea delle conseguenze. Pierfrancesco Favino
Quali?
Innanzitutto il nostro pubblico penserà sempre che il cinema estero o USA sia di serie A e quello italiano di serie B. Ma soprattutto, finiremo con l’abituare i nostri giovani che sia normale che la narrazione delle nostre storie debba assomigliare a un modello estero e non italiano. Ciò che sta scomparendo, non è l’attore italiano che fa un Ferrari italiano in un film americano ma l’abitudine, nei ragazzi italiani che vanno al cinema, a pensare che noi abbiamo una nostra visione del mondo, e che la raccontiamo in un modo che corrisponde alla nostra cultura. Se lasciamo che le storie le girino altri, consentiamo che il nostro Paese venga raccontato da chi vuole vederci in modi stereotipati, e questo pian piano cambierà anche la nostra percezione di noi stessi. Stiamo anche sprecando un’occasione preziosa per reagire.
Quale è questa occasione?
In questo momento il sistema cinematografico americano, in particolare, ha paura di essere percepito come non inclusivo. Approfittiamone. Raccontiamole noi le nostre storie. È un’occasione dal punto di vista industriale. Rischiamo di mandarla a rotoli mentre altri nel mondo ne stanno approfittando. Così lasciamo che cinematografie storicamente meno importanti di quella italiana prendano il nostro posto.
Agli attori che ruolo affidi in questa visione?
Se domani il pubblico italiano vedrà attrici e attori italiani interpretare i nostri ruoli nei film internazionali, sentirà di appartenere a qualcosa di più grande, e forse tornerà a vedere i film italiani. Il che è esattamente la mia finalità. Sono felice che Riccardo Scamarcio sia il protagonista nel film di Johnny Depp su Modigliani, o che Borghi e Marinelli abbiano successo all’estero con Le otto montagne. Abbiamo bisogno di questo! Quando Sorrentino è tornato in corsa agli Oscar con È stata la mano di Dio, l’ho sostenuto con tutto me stesso. È così che si deve fare. Il loro successo aiuterà quello di un’intera industria.
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In sintesi, cosa proponi per superare questo momento?
Bisogna fare sistema. E per farlo, devi porti un obiettivo finale e poi capire come ottenerlo. Ma ci siamo posti il problema di quale sia questo obiettivo? Perché dati alla mano, la situazione non è buona. E ho l’impressione che questo sfugga. Non c’è un film italiano nei primi dieci incassi dell’anno. Il pubblico non esce di casa per andarlo a vedere, perché lo considera un cinema di serie B. È ovvio che vadano fatti bei film. Ma oltre questo, vogliamo chiederci o no cosa si può fare per ricucire questo rapporto? Perché di cose da fare ce ne sono tante. Da noi il pubblico non sa, ad esempio, dopo quanto tempo un film in uscita in sala andrà poi sulle piattaforme. Anche questo aiuterebbe l’industria: se io so a marzo che il film che esce al cinema non lo vedrò in piattaforma prima di ottobre, magari sono più incline ad andare in sala. È il discorso delle regole e dei paletti: Francia, Germania, Inghilterra li hanno messi, questi paletti. Noi ancora no.
Gli attori possono fare qualcosa da subito?
Farsi ascoltare, dare il loro contributo di conoscenza del settore, che non abbia un sapore unicamente polemico. Anche se in Italia un contratto collettivo non esiste. Con Unita, l’associazione degli attori a cui appartengo, negli ultimi due anni siamo stati in contatto con tutte le forze politiche, indipendentemente dal colore, per tentare di trasferire l’esperienza maturata sul campo e far comprendere cose che solo chi fa questo mestiere può sapere. Lo sviluppo industriale lo crei lavorando tutti insieme, confrontandoti. Ma bisogna sbrigarsi. L’occasione sta passando. Pierfrancesco Favino
Oggi rifaresti le dichiarazioni di Venezia?
Ma certo. Il cinema mi ha dato tanto, è giusto che dia il mio contributo per suscitare un dibattito, una reazione.
Dopo Comandante, a dicembre uscirà un altro (bellissimo) film in gara a Venezia del quale sei protagonista, Adagio di Stefano Sollima. Sei già impegnato in nuovi progetti?
Sto girando Il Conte di Montecristo, una produzione francese con Pierre Niney nel ruolo di Edmond Dantes. Sono molto felice di farlo. Ho anche riletto dopo tanti anni il romanzo di Alexandre Dumas. E me ne sono di nuovo innamorato.