Una storia di donne, di confronti, di non detti e di trasformazioni: questo è, solo in parte, il romanzo omonimo del 1929 della statunitense Nella Larsen sul quale si è basata Rebecca Hall per il Passing che segna il suo esordio da regista. Da lei anche scritto e prodotto, il film ha una forma molto particolare e non solo per il bianco e nero scelto, che rispecchia il mondo in cui si svolge mentre ne confonde la polarizzazione.
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La circolarità della storia, che ci accoglie con uno schermo bianco dalla luce della giornata in cui si incontrano le due protagoniste e ci saluta sotto una coltre di candida neve, nasconde un tumulto crescente, sebbene soffocato dallo stile e dalla civiltà dei personaggi coinvolti: Irene ‘Rennie’ Redfield e suo marito Brian (Tessa Thompson e André Holland) e l’ingestibile e inquieta Clare Kendry di Ruth Negga.
Siamo a New York, alla fine degli anni Venti, proprio mentre si afferma il movimento culturale afroamericano denominato Rinascimento di Harlem. Rennie e Clare sono due donne di colore capaci di farsi passare per bianche che si ritrovano per caso dopo tanti anni. Una volta amiche d’infanzia, le due riprendono a frequentarsi, soprattutto per la tendenza di Clare a imporre la sua presenza. Attiratasi via via le simpatie del marito, di tutta la famiglia e dell’intera cerchia sociale di Irene, Clare porta lo scompiglio nel mondo dell’altra, tra ossessioni, rimozioni e bugie.
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Il razzismo è ovunque, nonostante la Harlem raccontata sia molto più ‘alta’ e ricca di quanto siamo abituati a vedere. E nonostante il momento storico di cambiamento, l’odio per i ‘“Negri” è violentissimo. Nascondersi, fingere, non è una soluzione, tanto dentro casa quanto all’esterno, quando c’è chi non è disposto ad accettare di far finta di niente, in un senso o nell’altro.
E in questo senso lo scavo cui la disperazione e il desiderio di catarsi di Clare obbliga l’altra donna non resterà senza conseguenze. Come la crepa che vediamo crescere sul muro della camera da letto, come un virus capace di mimetizzarsi nell’ambiente scelto, ma anche di intaccare un organismo fino ad allora sano, come un tarlo inarrestabile, dopo il passaggio del quale nulla sarà più come prima. E sarà impossibile continuare a negare.
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Diretto da una londinese, bianca ma fortemente connessa con il tema trattato per motivi personali, tutto sembra oscillare tra il film che il Woody Allen più nostalgico e drammatico farebbe se decidesse di affrontare il mondo Black e quello che un Denzel Washington meno verboso e cerebrale avrebbe potuto proporre in alternativa al Barriere del 2016. E per quanto sconti alcuni eccessi didascalici, l’origine letteraria e la forma teatrale sembrano essere un esplicito invito – se non richiesta – ad attenerci allo spettacolo messo in scena davanti a noi. Senza perderci in dietrologie o chiedere troppe spiegazioni. Per scoprire quante sfumature di grigio possa offrirci un mondo in Bianco e Nero.