Venezia 80, God Is a Woman – Intervista al regista Andres Peyrot

Il filmmaker e il co-protagonista Cebaldo Inawinapi raccontano a Ciak il lungometraggio in concorso alla 38ma Settimana Internazionale della Critica.

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Nel 1975 il regista francese premio Oscar Pierre-Dominique Gaisseau si reca a Panama con la moglie e la figlia Akiko per realizzare un documentario sul popolo Kuna. Il ritrovamento di quel film, rimasto incompiuto e confiscato da una banca, viene raccontato in God Is a Woman, il lungometraggio d’esordio di Andres Peyrot che ha aperto il Concorso della 38ma Settimana Internazionale della Critica a Venezia 80. Un film su un film, dunque, ma anche su come la tecnologia possa essere utlilizzata per dare una risposta positiva al dilemma pasoliniano su sviluppo e progresso, mettendo quest’ultimo al servizio di un percorso di riappropriazione e valorizzazione della propria identità culturale da parte di una comunità del mondo post-coloniale.

«Penso che, come viene detto molto bene nel film, evolversi non significa necessariamente perdere la propria cultura», afferma Peyrot intervistato da Ciak, «significa adattarla al presente. È interessante vedere come nuovi strumenti della modernità possano essere impiegati per aiutare a preservare e condividere una tradizione. Per esempio, i giovani filmmaker Kuna che vediamo nel lungometraggio tengono molto alla difesa questo aspetto, vanno nelle comunità e fanno workshop, discutendo le regole dello storytelling, come scegliere un’inquadratura, scaricare applicazioni per il montaggio sul telefono: ognuno ha i dispositivi per farlo, e così può narrare la sua storia e condividerla».

Figura chiave nella ricerca del doc perduto è lo scrittore e poeta Kuna Arysteides Turpana, la cui morte nel 2020 per Covid ha segnato una pausa di due anni nella realizzazione del lungometraggio di Peyrot: «È stato un momento molto difficile», confessa, «naturalmente per la perdita di un caro amico e anche per il film. Il suo stava diventando il punto di vista, il personaggio principale».

Tra le figure che hanno supportato Peyrot nel prosieguo del lavoro, c’è Cebaldo Inawinapi, anche lui al Lido per presentare God Is a Woman. Dell’amico Turpana, Inawinapi sottolinea, tra le altre cose, la capacità di essere stato un intellettuale cosmopolita senza perdere il legame col suo popolo: «L’importanza che riveste per la nostra comunità sta soprattutto nel fatto che la sua poesia e la sua arte hanno una forte radice nella cultura indigena Kuna, padroneggiando però anche la lingua occidentale, lo spagnolo», oltre che l’inglese (è stato traduttore di Shakespeare) e il francese. Nell’auspicio che il patrimonio della sua gente «si proiettasse oltre la frontiera».

Per i Kuna, che non avevano mai visto il materiale girato cinquant’anni prima da Gaisseau (ma di quell’esperienza avevano tramandato oralmente il ricordo), il suo recupero significa la possibilità di rivedere sé stessi e i propri cari scomparsi. Ed è infatti nella commozione generale che avviene la proiezione del film ritrovato: «Forse hanno avuto delle foto, ma queste sono certamente le uniche immagini filmate che esistevano di quella comunità all’epoca», specifica Peyrot, «e questo ci ricorda di quanto le immagini stesse siano potenti e uniche».

Un potere e un’unicità che la saturazione mediatica della società occidentale odierna rischia di farci dimenticare: «Forse nell’acquisire così tante immagini, le svalutiamo.». God Is a Woman, al contrario, restituisce loro valore rendendone co-protagonista l’ormai quasi antico supporto materiale, la pellicola, di cui viene mostrato il processo di restauro. «Questo film ha sofferto molto”, afferma Turpana quando lo ritrova al Ministero. E vedere la sofferenza fisica di un film dice molto di ciò che è successo, ogni graffio sulla pellicola è parte della storia. La struttura materiale del film ha in sé molto significato e si evolve come una forma di vita, mentre il tempo passa».

In attesa allora di veder proiettato a dicembre il documentario di Peyrot di fronte alla comunità Kuna che vi ha preso parte, Inawinapi lo ritiene già «un gran lavoro», sottolineando come «la gente Kuna si sia sentita partecipe del progetto» e come quest’ultimo tocchi «un punto fondamentale per tutti i nativi, la memoria. Che non è solo ricordare il passato, ma viverlo nel presente».