L’INCONTRO: MICHAEL DOUGLAS

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«Anche mia moglie Catherine (Zeta-Jones, nda) dice che le piaccio quando faccio la canaglia», assicura Michael Douglas, seduto in un hotel di Beverly Hills. Poi però si affretta ad aggiungere: «Ma al cinema, ovviamente, non a casa». L’attore americano potrebbe a pieno titolo ripetere il celebre aforisma di Mae West: «Quando sono buona, so essere molto buona, ma quando sono cattiva, sono meglio», tanto che dopo l’adrenalinico B-movie The Reach e Ant-Man visti la scorsa estate, ora ha già girato il thriller Unlocked di Michael Apted a fianco della coppia Noomi Rapace e Orlando Bloom. Settantuno anni, due Oscar, due Golden Globe e un Emmy, dopo aver superato sia il rischio di separazione con la moglie – ora rientrato – che un cancro alla gola, Douglas oggi lavora come non mai, tanto che pare abbia già firmato con la Marvel per Ant-Man and the Wasp – sequel di Ant-Man previsto per il 2018 dopo i 520 milioni di dollari incassati dal primo film – e si appresta a diventare Ronald Reagan in Reykjavik di Baltasar Kormákur. Wall Street

Da Wall Street in poi sembra che il ruolo del cattivo le viene particolarmente bene: ma se la ricorda la prima volta che si è trasformato in villain sul set? Vediamo (ci pensa un po’, nda). Il protagonista di All’inseguimento della pietra verde era solo un malandrino, non lo catalogherei come cattivo. Credo proprio che il primo tradizionale villain sia stato il cinico e spietato Gordon Gekko di Wall Street. Ma bisogna sempre fare attenzione, perché è un ruolo che rischia di darti assuefazione: un cattivo può essere molto più profondo, sfaccettato e complesso di un eroe. Non corre il pericolo di perdere pubblico? No, al contrario, si guadagna. Quando ho girato Attrazione fatale, alla prima proiezione c’era la scena in cui, dopo aver incontrato la mia amante Glenn Close, torno a casa e disfo il letto, in modo che sembri che abbia dormito lì. Il pubblico ha riso e i produttori si sono girati verso di me e hanno gongolato: «Li hai già in pugno Michael, sono dalla tua parte». E la prima volta che ha ammazzato qualcuno? Fu ne Le strade di San Francisco, la serie. Fra le 104 puntate una era proprio su questo tema e ogni poliziotto raccontava il peso emotivo del suo primo omicidio. E la prima volta che è stato ucciso lei? Accidenti, faccio l’attore da quarantacinque anni, avessi saputo che mi avrebbe fatto un esame, avrei ripassato la mia carriera. Comunque no, sono morto pochissimo. Con che criterio oggi sceglie i suoi film? Curiosità. Passione. Diversità. Quando mi hanno scoperto il cancro alla gola, temevo non avrei più recitato, invece mi sono tornate energia e voglia. Desideri? Mi piacerebbe lavorare in Europa, parlo il francese e adoro l’Italia (lo dice in italiano, nda). Mai rifiutato un film di cui poi si è pentito? Solo Love Story, con Ali MacGraw, nel 1970. Il ruolo poi andò a Ryan O’Neal e divenne un successo clamoroso. Come mai non è diventato un regista? In realtà nel 1975 diressi Illegalità in vendita, un episodio della quarta stagione di Le strade di San Francisco. Così, per provare… E poi? Capii che era un mestiere molto solitario. Il regista è il primo ad arrivare sul set e l’ultimo a andarsene. E io sono pigro. Vede nessun giovane Michael Douglas in giro? Michael Fassbender. A noi americani oggi mancano attori con grande mascolinità, sono tutti europei o australiani. Per questo Channing Tatum ha bruciato le tappe. Per un attore come lei con due Oscar in salotto che esperienza è stata lavorare con la Marvel in Ant-Man l’anno scorso? Una vacanza? Un guilty pleasure? Scherza? Finalmente sono diventato popolare con i miei figli (Dylan Michael, di quindici anni, e Carys Zeta, dodici, nda). Non credevano nemmeno che fossi un attore, perché non avevano mai visto nessuno dei miei film. Tutti vietati.Michael Douglas …  

Non ha avuto il minimo tentennamento? Onestamente ero un po’ intimidito dal green screen, non l’avevo mai usato prima. Così ho telefonato a Jack (Nicholson, nda) che nel Batman di Burton era stato un formidabile Joker e l’ho interrogato su come cambiava la recitazione con tanti effetti speciali. Risultato? Sono tornato bambino. Quando terminavo di girare le mie scene, correvo a vedere quelle della troupe dello studio accanto che usava la macrofotografia, per rappresentare il punto di vista delle formiche. Una persona che deve ringraziare per il suo successo? Karl Malden, il mio partner in Le strade di San Francisco. Fu il primo a dirmi: «Non starmi sempre due passi dietro, qualche volta puoi anche precedermi». Attore straordinario, vinse l’Oscar per Un tram che si chiama desiderio. Aveva un naso enorme e incredibile. Mi diceva sempre: «Ho la fortuna di avere gli occhi blu, così la gente si distrae e non fissa il mio naso». Lei ha vinto due Oscar, uno da attore e uno da produttore: pensa mai che avrebbe meritato qualche altra nomination? Non mi pare che Wonder Boys di Curtis Hanson abbia ricevuto l’attenzione dovuta, a parte l’Oscar per la canzone di Bob Dylan. Poi ci sono un paio di piccoli film indipendenti, Solitary man e Alla scoperta di Charlie, che hanno visto in pochi. Ma non mi posso lamentare: a mio padre Kirk hanno dovuto dare un Oscar alla carriera nel 1996. Non ne aveva mai vinto uno. Lei è cresciuto come il figlio di Spartacus? I miei genitori hanno divorziato quando avevo cinque anni, ma sul lavoro sono stato inevitabilmente paragonato a lui. Vincere l’Oscar con Wall Street nel 1987 fu come uscire finalmente dalla sua ombra. Jack Nicholson, Louise Fletcher e Michael Douglas con l'Oscar per "Qualcuno volò sul nido del cuculo" 

Ma dodici anni prima aveva già vinto quello da produttore per Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman… Sì, ma non credo mio padre mi abbia ancora perdonato per quello. Mi aveva passato lui i diritti del romanzo di Ken Kesey che lui aveva interpretato a teatro. Ma quando io dopo otto anni di tentativi, riuscii finalmente a realizzarlo, gli dovetti spiegare che serviva un attore più giovane di lui. Che avessi ragione lo dimostrarono le nove nomination e i cinque Oscar. Ma il fatto che fra i vincitori ci fossimo io e Jack Nicholson, che lo aveva sostituito, per lui fu anche peggio. Se voglio farlo arrabbiare basta che lo stuzzichi dicendogli che non lo perdono di non avermi perdonato… Ancora oggi che ha 99 anni? La mia testardaggine l’ho presa da lui. Adesso ha già una nuova sfida da affrontare, sta per trasformarsi in Ronald Reagan in Reykjavik, il film che rievoca il suo incontro in Islanda con Gorbaciov che sarà Christoph Waltz. Emozionato? In realtà sono già stato il Presidente degli Stati Uniti in Il presidente – Una storia d’amore (di Rob Reiner, nel 1995, altro film scritto da Aaron Sorkin, nda), ma questa volta non è finzione e quindi ho già provato un paio di parrucche. Non vorrei sembrare irrispettoso nei confronti di Reagan, ma credo userò la stessa tecnica con cui sono diventato Liberace in Dietro i candelabri…