Ha fatto discutere già prima di uscire America Latina, il terzo lungometraggio dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, dal 13 gennaio nelle sale per Vision Distribution. E, al netto di eccessi e (anche gravi) scivoloni nella selva oscura dei social media, non è affatto un brutto segno. Ben venga, infatti, un cinema che non mette d’accordo tutti, magari per un azzardo in più sul piano stilistico o tematico, o semplicemente perché una voce e uno sguardo cominciano ad essere sin troppo riconoscibili per piacere a chiunque.
È il caso, ci sembra, dei due registi di Tor Bella Monaca. Il cui nuovo film portava (fin dall’anteprima a Venezia 78) il peso delle aspettative di chi, dopo l’exploit nazionale de La terra dell’abbastanza (pluripremiato ai Nastri d’argento) e quello internazionale di Favolacce (miglior sceneggiatura alla Berlinale 2020), ha atteso al varco i due gemelli. Magari per dimostrare (legittimamente) che non è tutto grande cinema d’autore quel che luccica. Il primo merito dei due registi, allora, è di non aver schivato la polarizzazione ripiegando su moduli più rassicuranti. Al contrario, America Latina è forse il loro lavoro più ostico e controverso fino a questo momento, già dalla provocatoria tag line «È amore» sulle prime, enigmatiche locandine.
È amore, dunque? Di certo, è un racconto oscuro e rarefatto che richiede lo sforzo (ma anche il piacere) dell’interpretazione, seguendo sino in fondo i due registi-sceneggiatori nell’edificio della psiche. Quella del dentista Massimo Sisti (Elio Germano), che trascorre la sua vita a Latina in una villa con la moglie Alessandra (Astrid Casali) e le due giovani figlie Laura (Carlotta Gamba) e Ilenia (Federica Pala). Ma le apparenze di tranquillità e realizzazione vengono giù quando l’uomo trova una ragazza rinchiusa nella cantina della sua casa. E, sconvolto, inizia a dubitare dei propri ricordi e percezioni.
Svelare di più comprometterebbe un’esperienza di cinema estrema e disturbante, inclassificabile in un genere ma intrisa di immaginario noir e comunque alternativa a qualsiasi idea e prassi convenzionale di realismo socio-psicologico. Perché lo sguardo dei D’Innocenzo deforma, corrode, sovraccarica il confine tra mondo esterno e interno, verità e illusione, veglia e incubo espressionista. Quello che, a ben vedere, i due hanno sempre fatto, anche con quell’altra “favolaccia”, immersa nel profondo (e rimosso) della società e della mente umana, che era Dogman di Matteo Garrone (di cui i D’Innocenzo erano co-sceneggiatori). Dove le coordinate storico-geografiche erano un punto di partenza per trascendere allegoricamente la cronaca.
Come in quest’allucinata “America” a Latina: la città laziale nata dalle paludi pontine rimanda infatti con rara pregnanza agli acquitrini e alle scorie della coscienza (maschile in particolare). Grazie, anche, a un comparto tecnico di prima grandezza, dalla fotografia di Paolo Carnera al montaggio di Walter Fasano, passando per le musiche dei Verdena. E attraverso la prova di un Elio Germano radicalmente calato nella pelle e nell’anima di un protagonista magnetico e respingente, fragile e inquietante a un tempo. Diviso tra le forme e i colori irreali dei nostri (sempre più precari) sogni di normalità e le ombre malsane che covano al piano di sotto. Cinema della (nostra) contraddizione, inevitabilmente divisivo. E va bene così.