Sezione sempre interessante, tra i titoli che spiccano nell’Un Certain Regard del Festival di Cannes 2023 c’è sicuramente il dramma storico australiano The New Boy, scritto e diretto da Warwick Thornton, che da almeno 18 anni voleva realizzarlo. Non solo per la presenza della stella di Cate Blanchett (anche produttrice con la sua Dirty Films), ma dell’incredibile protagonista, l’esordiente Aswan Reid, di origine aborigena. Dopo il passaggio sulla Croisette, il film sarà in sala dall’altra parte del mondo a partire dal 6 luglio, nella speranza che trovi poi una distribuzione anche italiana.
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IL FATTO:
The New Boy è il piccolo aborigeno senza nome raccolto nell’Outback australiano dopo un incontro piuttosto conflittuale e portato, nel cuore della notte, in un remoto orfanotrofio gestito da Suor Eileen, che insegna il cattolicesimo ai suoi ospiti locali e nasconde a tutti la morte del sacerdote Dom Peter con la complicità della di Suor Mum (Deborah Mailman) e il factotum George (Wayne Blair). Sono gli anni ’40, e il bambino di 9 anni è solo uno dei tanti che il governo australiano ha per lungo tempo deportato dalla propria tribù e terra, ma in questo caso il suo arrivo finisce per intaccare l’equilibrio di quel piccolo mondo. L’incontro – comunque forzato, e mediato – con Gesù, svela una complessità spirituale e dei poteri eccezionali che il ragazzo, nella sua ingenuità, non nasconde. Anche a costo di mettere a rischio la propria sopravvivenza, libertà o integrità.
L’OPINIONE:
L’incipit spiazzante ci porta in un Outback violento, dove anche i bambini sanno di dover lottare per sopravvivere, un prologo reso straniante dalla scelta di musiche, coreografia e montaggio, ma che definisce sin da subito un contesto nel quale la realtà dei fatti si scontra con quella del vissuto. Da qui in poi quello del piccolo protagonista, che la macchina da presa del regista – che proprio al Festival di Cannes “ha iniziato“, come viene ricordato prima della proiezione, citando il Samson and Delilah del 2009, sempre Un Certain regard e vincitore della Caméra d’Or – segue nel suo indottrinamento cattolico e nel suo graduale costruire un rapporto diretto con il Cristo. In questo caso, quello ligneo del crocifisso appena consegnato alla struttura, spersa nel deserto al centro della nazione-continente, con il quale il ragazzo empatizza e che, dopo aver provato su di sé alcune delle pene del martirio, decide di riportare tra noi, perché – almeno lui – possa vivere libero. Come lui, la statua non ha vestiti né scarpe, e come lui è solo, chiuso in un mutismo sostanzialmente ignorato dagli altri. E lui, come il Gesù della statua, sembra in grado di fare miracoli. Quanto meno di mostrare un potere particolare, ultraterreno, al quale tutti guardano come fenomenale, ma che è forse solo la capacità di aver sviluppato un legame particolare con la natura. Una scintilla che la dottrina punta a spegnere col battesimo, una eresia da mondare, incurante dello sradicamento e della disperazione in cui potrebbe piombare il ragazzo. Che per tutto il film ruba la scena alla più acclamata attrice, quasi nascosta nel soggolo che le copre il capo e sopraffatta dalla maestosità di una location unica, mistica nella propria solennità, martirizzata negli anni come la sua popolazione aborigena. Come anche nello Sweet Country con Sam Neil presentato alla Mostra di Cinema di Venezia del 2017 dal regista, che qui tende a perdersi un po’ nel suo stesso ascetismo, privandoci – volutamente? – di una backstory che avrebbe dato maggior tridimensionalità alla monaca. Forse per il troppo desiderio di mettere in scena una storia tanto inseguita, nata dall’esperienza personale vissuta in un istituto analogo fino all’età di tredici anni, per volere della madre.
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Il già citato Sweet Country e La generazione rubata, film di Phillip Noyce, con lo scomparso David Gulpilil, che racconta la deportazione di migliaia di bambini aborigeni da parte del governo australiano. Un tema al quale si fa riferimento anche nel più mainstream Australia con Nicole Kidman e Hugh Jackman diretto da Baz Luhrmann nel 2008. Per godere al meglio dei virtuosismi di Cate Blanchett, invece, recuperare assolutamente il Manifesto di Julian Rosefeldt nel quale interpreta 13 ruoli diversi o il suo Bob Dylan nel Io non sono qui di Todd Haynes, oltre al corto di Pedro Almodóvar La voz humana del 2020.