Un semaforo brucia nel crepuscolo della città. Inizia così Ema, sorta di ritorno (temporaneo?) a casa, Valparaiso, di Pablo Larrain, uno dei nomi di punta del nuovo e vitalissimo cinema cileno post-dittatura. Ema è una ballerina, divide la sua vita tra l’insegnamento e il compagno, regista teatrale di una compagnia di dance-street (o simile) a cui entrambi stanno dando tutto. Li incontriamo poco dopo aver riportato il figlio adottato, Polo, all’istituzione perché ingestibile (con l’incoscienza dei bambini ha compiuto qualche atto di insostenibile crudeltà), ma non sanno superare il trauma. Litigano con meticolosa ferocia e la compagnia ne risente: “Porco sterile”, “Preservativo umano” sono due dei vari “complimenti” che la donna spara al compagno (il film propone un florilegio di insulti veramente fantasiosi), “l’abbiamo entrambi abbandonato. Ma il tradimento di una donna è molto più feroce” gli risponde l’amante. “Aggiustatevi le vostre teste marce, prima di raccattare bambini!” li liquida l’impiegata dell’affidamento. Ma Ema, il suo modo assoluto e sconcertante di amare e di darsi agli altri (maschi e femmine), ha un suo progetto….
Sembra scritto sulla sabbia questo Ema di Larrain. Quasi una serie alternata di estratti di psicodrammi, numeri di danza (splendidi, specie quelli reggaeton peraltro odiati dal regista coreografo), sequenze di sesso libero e assortito, vandalici atti incendiari e visivamente splendidi, quasi un quadernetto di appunti che alterna pagine di grande stile ad altre misteriosa gratuità. Sconcertato dall’inizio, lo spettatore si domanderà dove voglia andare a parare questa parata (scusate il bisticcio) di tipi eccentrici, disinibiti outsiders rispetto ai canoni di vita regolata e borghese. Lo scopriremo alla fine, perché un tema con tanto di soluzione morale in Ema c’è ed è profondo e riguarda le strategie di sopravvivenza del sentimento (erotico, affettivo, familiare) in una società completamente indifesa nei confronti della modernità e che arranca alla ricerca di nuovi equilibri. Anche se il nome noto è Gael Garcia Bernal, il film ha il suo punto di forza in Mariana Di Girolamo, disinibita, dai capelli di un biondo che più tinto non si può, dallo sguardo intelligente e torbido, imprevedibile come l’andamento di questa commedia drammatica fatta di idee che si alimentano per strada, con una nuova (e tutto sommato bella) gioventù che avanza e reinventa il mondo a propria (instabile) serenità.