C’mon C’mon, la recensione del viaggio di Joaquin Phoenix

La lezione di Mike Mills sul futuro e le relazioni conquista la Festa di Roma.

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C'mon C'mon

Futuro, responsabilità, libertà e dovere, stereotipi e rivelazioni, in C’mon C’mon Mike Mills torna a parlare del senso della vita. Ovviamente a modo suo. E con un piccolo aiuto da parte degli amici. E se in Thumbsucker l’infanzia era quasi un fardello di cui liberarsi e in Beginners le debolezze erano quelle della fine della vita e non dell’inizio, dopo cinque anni siamo di nuovo dalle parti del precedente Le donne della mia vita.

C’mon C’mon

Questa volta la madre single – di fatto, per vari motivi – alle prese con un giovane figlio è una azzeccatissima Gaby Hoffmann, indispensabile per l’equilibrio complessivo della storia, sempre più indie dopo esser stata una delle attrici bambine di punta del cinema statunitense anni ’90. Per stare vicina al marito, bipolare in crisi depressiva e bisognoso di assistenza, la sua Viv affida il piccolo Jesse di nove anni al fratello Johnny, giornalista radiofonico impegnato in una serie di interviste ai bambini del Paese e paradossalmente poco a suo agio a comunicare con gli altri senza il filtro del suo microfono.

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Tutto è filtrato dallo strumento, nelle domande che pone ai suoi piccoli testimoni del tempo. Un esercito di pre-adolescenti che sullo schermo raccontano il mondo dei grandi e la loro stessa famiglia dal loro punto di vista, in una collezione di spunti e riflessioni toccanti, divertenti e capaci di dare un’immagine della realtà che li circonda più ottimista di quanto si penserebbe, nonostante la preoccupazione per il pianeta che si troveranno a vivere.

Momenti che costruiscono un contesto nel quale ambientare il cuore della vicenda, e rendere più realistica la figura del ragazzino protagonista, l’incredibile Woody Norman apparso già in diversi film e serie tv (The War of the Worlds, I miserabili). E’ tra lui e un appesantito ma sereno Joaquin Phoenix che vediamo svilupparsi un rapporto particolare, inedito per entrambi, uno consapevole dei problemi del padre e della madre, l’altro spaventato dalla novità del ruolo e dall’occasione per affrontare traumi sepolti in un indistinto senso di colpa e di espiazione al limite dell’autolesionismo.

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Nel viaggio da Detroit a Los Angeles, e da New York a New Orleans i due hanno modo di stabilire un contatto, che non è più quello di subalternità previsto dai ruoli sociali, ma di scambio quasi alla pari. Almeno di pensiero ed emotivo. Il microfono diventa un testimone, una chiave che inverte i ruoli e apre una porta, che permette a entrambi di confrontarsi, direttamente e in maniera mediata insieme. Finendo col sorprendersi di trovare nell’altro un soggetto capace di ascolto e di rispetto. Al di là delle lezioni di paternità (o maternità) impartite dalla donna assente giustificata o recitate leggendo dal cellulare. E con l’aiuto dei tanti testi che Phoenix legge in scena, scelti a spezzare il ritmo e ad allargare l’orizzonte, da Il mago di Oz allo splendido Star Child di Claire A. Nivola.

C’mon C’mon

Jesse e Johnny sono accomunati dal senso di spaesamento e di invisibilità, dal bisogno di attenzione e il tentativo confuso di creare – o conservare, e ricreare – una immagine di sé reale e onesta. E per quanto lo sguardo sia sempre quello dell’adulto, quello del bambino è un mondo rappresentato senza paternalismi o facili scappatoie, favolistiche o colorate. Non a caso non si abbandonano mai il bianco e nero (se non sui titoli di coda per una dedica straziante), sempre utili quando si ha a che fare con confronti tanto estremi e polarizzati. Che per una volta si riconciliano in una conclusiva accettazione delle proprie frustrazioni e paure, prima di arrivare alla rassicurante conclusione di non aver perso – nel senso di smarrito – il tempo passato, l’esperienza vissuta, i progressi fatti: pilastri nella costruzione di un futuro inatteso, e imprevedibile, ma pieno di libertà, verità e sentimenti.

RASSEGNA PANORAMICA
VOTO
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