È una, liberissima, rielaborazione de I Fratelli Karamazov il lungometraggio Squali di Alberto Rizzi, presentato fuori concorso alla 22ma edizione di Alice nella Città (sezione autonoma e parallela della 19ma Festa del Cinema di Roma) fra le proposte di Panorama Italia. E, dopo il precedente Si muore solo da vivi (2020), il regista si misura con l’ultimo capolavoro di Fedor Dostoëvskij, trasportandolo dalla Russia zarista a una provincia veneta contemporanea e insieme sospesa in una cappa malsana di avidità, alienazione, incesto, odio e desiderio, disperato e contraddittorio, di riscatto.
«Volevo fare un film che andasse a spiare l’orrore dentro di noi», spiega a Ciak Rizzi, che per questa nuova fatica (prodotta da Andrea Moserle e Mattia Conati per Magenta Film, in collaborazione con Ippogrifo Produzioni) ha trovato terreno fertile nell’originale del grande scrittore, dove lo scavo dei personaggi prevale sulla trama stessa: «Penso che nessuno meglio di Dostoëvskij sappia indagare l’animo umano nei minimi dettagli».
I tormentati antieroi della trasposizione, che come nel libro si rincontrano e scontrano nella casa paterna, sono i fratelli Camaso: Demetrio (Stefano Scherini), Ivan (Diego Facciotti), Alessio (Gregorio Righetti) e Sveva (Maria Canal), reinterpretazione quest’ultima dello Smerdjakov dostoëvskijano: «L’elemento femminile è molto importante nel film [dove il monastero in cui studia Alessio ruota intorno a una santa impersonata da Chiara Mascalzoni, NdA], quasi in contrapposizione al padre inteso come patriarcato, che cerca di seppellire le madri», spiega il regista, che ha scelto Mirko Artuso per il ruolo del corrotto e bevitore genitore-padrone Leone. Il cui conflitto con Demetrio riguarda anche l’attrazione per la stessa donna, la “Crucca” (Sara Putignano).
Sullo sfondo c’è un Nord-Est montano particolarmente aspro e non molto rappresentato al cinema: «La provincia per me è un territorio che sta sopra tutti i territori», afferma Rizzi. «I nostri grandi cantori, come Germi, Fellini, Sorrentino, vengono tutti dalla “provincia dell’Impero”. E nella provincia c’è un mondo comune. Cercavo un paesaggio molto duro, anche insolito, perché quando pensi al Veneto raramente pensi a quel tipo di territorio, una montagna che non sono né Cortina né le Dolomiti. È un mondo di pietra, e questi personaggi si portano dietro dei macigni. Se l’avessi ambientato in città non sarebbe stato credibile. Non perché io persegua il realismo: perseguo la verità».
Non a caso, Squali gioca anche, e soprattutto, sui piani del grottesco e dello straniamento, come dimostra emblematicamente la soluzione per adattare il celebre episodio dostoëvskijano del Grande Inquisitore: «È stato un dilemma», racconta Rizzi, «trattandosi del brano più ostico da portare al cinema. Non escludevo di tagliarlo, ma si tratta di un episodio imprescindibile quando si parla dei Karamazov: ho voluto tenerlo per gli appassionati del romanzo, però serviva un’idea per metterlo in scena. E, visto che sono anche regista di teatro, ho scelto una chiave meta-teatrale. Ho chiesto una collaborazione al mio collega Matteo Spiazzi, per costruire la scena con gli oggetti che i frati trovano in canonica. Penso sia il momento più bizzarro del film, che peraltro ha tante cose bizzarre».
Come i titoli di testa, “declamati” nell’incipit dal gestore di un singolare cinemino-baracca rurale: «Suggerendoci che, forse, l’intera storia è già accaduta, e noi la stiamo rivedendo come se fossimo dentro il film. C’è anche un piccolo omaggio a Uccellacci e uccellini di Pasolini».
Ad essere menzionato esplicitamente in Squali è poi un altro indimenticabile lungometraggio italiano degli anni ’60, I pugni in tasca di Marco Bellocchio: «Devo ringraziarlo perché ci ha concesso di usare il film». Dove, guarda caso, si parla di «quattro fratelli con la madre vedova, che verrà uccisa. Non ho trovato riferimenti a una possibile ispirazione di Bellocchio dai Fratelli Karamazov, ma chiaramente c’è quella storia dentro, è un film dostoëvskijano. Ed è un’altra storia di provincia e di odio familiare, quindi ho voluto citarlo, anche per omaggiare il maestro Bellocchio, uno dei nostri grandi registi».