L’alienazione della vita in fabbrica, la frustrazione per una vita imposta, meccanica, l’horror vacui di una realtà circoscritta: in Luce, scritto e diretto da Silvia Luzi e Luca Bellino, la ricerca di identità passa attraverso l’impulso di ribellione, necessario, violento, inevitabile di una ventenne – cui Marianna Fontana dà anima e corpo – che vive in un paesino dell’Irpinia, Solofra, e lavora in una fabbrica di pellame, ritrovandosi, a un certo punto, a passare ore, giorni, mesi al telefono con una voce della quale immagina il volto, che non ha mai visto, quella di Tommaso Ragno.
“Abbiamo immaginato lo sforzo che deve compiere una giovane donna, che vuole ribellarsi alla sua vita lavorando in una fabbrica ed abitando in una piccola realtà di montagna – hanno raccontato i registi e sceneggiatori durante l’anteprima del film ad Alice nella Città – a quell’età ed in quelle condizioni è difficile. La nostra protagonista, che non ha un nome perché non ha ancora capito chi è, per trovare se stessa, vuole uccidere il padre, inteso non nella sua rappresentazione fisica, ma come figura astratta, che può essere rappresentata da un essere umano quanto da un aspetto della vita. Quello che capirà alla fine, forse, è che non serve nemmeno uccidere la figura paterna per diventare se stessi, basta allattarsi da soli“.
Gli stereotipi del Sud vengono ribaltati nella storia, che rappresenta un mezzogiorno cupo, fatto di buio, freddo, montagne ed industrie, più difficile da vivere ed opposto al solito racconto di mare, accoglienza e vita lenta, a cui siamo abituati.
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“Solofra di inverno è un posto circondato di montagne e colline, che inghiottiscono l’orizzonte – ha spiegato Marianna Fontana – mostrando un Sud fatto di buio illuminato solamente dalle luci al neon delle fabbriche. Il mio personaggio non vede mai il sole: comincia a lavorare quando non è ancora arrivata l’alba e ne esce quando il tramontato è già passato“.
Per poter entrare in contatto con la vita della protagonista, l’attrice si è trasferita a Solofra 3 mesi prima delle riprese, lavorando nella fabbrica insieme alle altre operaie, senza svelare la sua identità.
“In quel periodo ho vissuto le sensazioni fisiche ed emotive che inglobano le donne che lavorano in fabbrica – ha raccontato la Fontana – quel ritmo costante, quella catena di montaggio perfetta e schematica, che diventa la tua migliore amica, la tua confidente e il tuo sfogo in cui riversare l’insoddisfazione provocata dal lavoro meccanico, sovrastato da rumori tanto forti che per parlare con le altre c’è bisogno di urlare. Vivendo in quel contesto di solitudine, ho capito la fame di libertà della protagonista, la sua voglia di tumulto, la ricerca del calore di un abbraccio attraverso l’ascolto di una voce al telefono. Alla fine di quei primi mesi, ho detto alle altre operaie che ero lì per girare un film“.
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Alcune delle operaie hanno preso parte alle riprese, interpretando loro stesse. Il lavoro dello stabilimento non si è mai fermato: era il set ad adattarsi ai ritmi della fabbrica, non il contrario. I registi volevano preservare, rispettare e raccontare la realtà di quel mondo, l’alienazione a cui sono costrette le operaie, il battito meccanico, schematico ed incessante di quella vita vissuta nell’oscurità, altra protagonista della storia.
“Dopo il primo mese, ho cominciato ad avere i calli alle mani – ha continuato l’attrice ventisettenne – le pinze con cui si maneggiano le pelli scottano, nonostante i due strati di guanti, e ti penetrano nelle ossa. Il lavoro è talmente veloce che non hai il tempo di pensare, vieni risucchiato da quella gestualità meccanica, ciclica. Le polveri delle pelli ti seccano il viso, che diventa opaco, spento, e ti ostruiscono il respiro, il naso si fa nero. Mi ha fatto capire perché si sviluppi un bisogno di evasione talmente forte. Quella vita diventa asfissiante, non è semplice: sei chiusa in una fabbrica per ore e ne entri ed esci nel buio“.
Una vita alienante, che aveva bisogno di altrettanta alienazione, di un’ossessione a cui aggrapparsi, per potersi liberare, così arriva quella telefonata che assomiglia a una realtà lontana, nuova, sconosciuta e quindi potenzialmente infinita, ideabile.
“Mi sono accorta che facendo quel lavoro, avevo bisogno di agitarmi – ha concluso l’attrice – fumare una sigaretta durante un momento di pausa diventava un’azione famelica, necessaria, che scioglieva la tensione accumulata mentre ero piegata, ingobbita, sulla macchina. La voce al telefono che incontra, così, assolve a una funzione ben precisa per lei: immaginare una vita che non sta vivendo, indossare una pelle diversa, aggrapparsi a un senso illusorio di libertà“.