La conosciamo – e la amiamo – come Maria Hill del Marvel Cinematic Universe e per i tanti anni in How I Met Your Mother, ma alla Festa di Roma 2024 Cobie Smulders è arrivata per presentare il film diretto da Jason Buxton, già visto al TIFF di Toronto, Sharp Corner. Una storia che la vede protagonista di un dramma familiare, vissuto da madre divisa tra lo sconcerto per la strana ossessione sviluppata dal marito (il Ben Foster di Six Feet Under e Angel degli X-Men) e la paura delle conseguenze che questa potrebbe scatenare, soprattutto per loro figlio.
Il film, basato sul racconto breve del giornalista Russell Wangersky, racconta di Josh e Rachel, una coppia sposata appena trasferitasi in quella che doveva essere la casa dei loro sogni ma che si rivela causa di problemi insuperabili. Costruita su una curva pericolosa, infatti, nel giardino della stessa continuano a schiantarsi automobili e a moltiplicarsi le vittime di incidenti mortali, terrorizzando il piccolo Max e scatenando nell’uomo una strana ossessione, che non sembra saper superare e che lo porta a trascurare tutto, figlio, moglie e lavoro.
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La tensione cresce lentamente, ma inesorabilmente in questo secondo film del regista canadese, molto apprezzato per il suo precedente film – il Blackbird con cui esordì – e che ammette di aver pensato al cinema horror, pur avendo cercato di incrociare la dark comedy con il thriller psicologico, American Beauty con Taxi Driver, e di essersi trovato costretto a costruire la casa del film (in un terreno affittato per 100 dollari per un intero anno), dopo averla tanto cercata in Nova Scotia, dove hanno girato.
Una storia di mascolinità confusa e narcisismo, nella quale il protagonista sembra essere schiacciato da un distorto concetto di eroismo e dal quale la moglie sembra non aver altra possibilità che fuggire. “Ne abbiamo parlato prima delle riprese del film pensando alla situazione, dopo le due scene di felicità dei primi giorni in cui sembra la relazione più che bella che si possa volere, che ci possa essere un nuovo inizio – dice la Smulders riflettendo sul comportamento della sua Rachel nei confronti del marito Josh. – Ma non penso che la loro relazione fosse delle migliori prima di tutto ciò. Penso che fossero più felici, certo, ma che stando insieme da tempo lei sapeva che l’altro non avrebbe elaborato certe questioni, che non avrebbe ascoltato, e per questo lo spinge ad andare in terapia. In qualche modo assiste al crollo, fino a che lui non va troppo oltre, e lei va via. Ma è solo la goccia che fa traboccare il vaso“.
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Per me è stato affascinante per me essere il pubblico, in un certo senso, osservare questo avvitarsi del personaggio. Jason ha fatto un lavoro incredibile nel creare l’atmosfera di questo film, così densa e percolante nel lento dispiegarsi di questa follia. Il mio personaggio è una terapeuta, e dovrebbe cercare di sistemare le cose, ma di contro c’è anche il suo essere un uomo adulto e le diverse priorità all’interno della famiglia, su tutte quella di proteggere il figlio. C’è un cambiamento sottile, e il lento osservarlo di Jason mostra lo sgretolarsi di tutto. Sono molti i cambiamenti di questo tipo, e ci si chiede se sia normale, se sia una nuova normalità? Ma quando certi limiti vengono superati, non si può tornare indietro. E il momento credo sia quando lei trova il manichino per la rianimazione cardiopolmonare, e tutto si rompe.
Vicino casa mia, a Los Angeles, c’è un incrocio tremendo, ma lì quasi tutti lo sono. Ogni volta che lo attraverso trattengo il respiro e penso che quella è la volta in cui succederà qualcosa. Ciò che amo, che Jason ha creato nel nostro film, è che Ben guardi e aspetti che quei momenti arrivino. Una attesa e un silenzio che sono ancora più terrificanti di quando si sentono i rumori dell’incidente, è così ben realizzato che anche senza sentire niente sei in tensione.
“Quindici anni fa vivevo in un città dove c’era un incrocio dove girando a sinistra le macchine non vedevano un piccolo sentiero e ogni tre mesi c’era un incidente – aggiunge proprio il regista, che racconta quanto il tema lo tocchi da vicino. – Quando avevo dieci anni, mio padre ha avuto un grave incidente stradale e credo che questo abbia avuto il suo peso anche nel mio primo corto. Evidentemente è qualcosa che fa parte di me“.
A ispirare la storia però è un racconto, lo ha scelto per questo?
Innanzitutto per la scrittura, e poi perché aveva a che fare con un uomo che trova l’oscurità nel suo quotidiano, qualcosa che mi ha attratto come regista. All’epoca avevo da poco finito il mio primo film, Blackbird, e cercavo qualcosa che mi potesse ispirare, e questa storia mi ha parlato, è diventata il punto di partenza per esplorare la mascolinità e l’ossessione, e come questa possa portare una persona a non essere più presente per le persone care, come la moglie e il figlio.
C’è una strana, morbosa, tendenza a spiare le disgrazie altrui, una volta si rallentava in autostrada per vedere l’incidente oggi si pubblicano foto sui social…
In realtà, anche se il film è basato su un racconto intitolato “Share the Corner”, il titolo originale del film, ai tempi della prima stesura della sceneggiatura, era “The Misery of others”. Mi interessava esplorare il fenomeno che dite e penso che ci sia qualcosa di intrigante nel fatto che chi osserva l’incidente si senta felice di non essere al loro posto e questo eraì un aspetto che mi interessava esplorare. Anche attraverso quest’uomo che, forse, in fondo, sente di avere in sé qualcosa di buono. Rachel riconosce questo compiacimento in lui, qualcosa che viene liberato, qualcosa di legato all’infelicità altrui che volevo esplorare e che è ben spiegato da una parola tedesca (Schadenfreude, il piacere provocato dalla sfortuna altrui, ndr).