«Abbiamo creduto molto in questa selezione, e abbiamo avuto una conferma da parte del pubblico», dichiara soddisfatta a Ciak la Delegata Generale Beatrice Fiorentino facendo il bilancio della 38ma Settimana Internazionale della Critica, sezione autonoma e parallela della Mostra di Venezia promossa dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e dedicata alle opere prime. «Tutti i titoli», sottolinea, «hanno avuto una risposta molto calorosa, anche in termini di presenza». Sale sempre parzialmente piene, infatti, malgrado qualche disorientamento causato dal sistema di prenotazione online dei posti. E un pubblico in prevalenza (sempre più) giovane, a confermare il forte radicamento nel presente di questo spazio.
Il tratto unificante stavolta era la riflessione sull’immagine. Ma è ancora importante oggi che il cinema rifletta su sé stesso? Qualcuno ci vedrebbe un rischio di intellettualismo…
Penso che sia assolutamente necessario, intanto perché viviamo immersi nelle immagini, abbiamo quasi tutto il giorno in mano un dispositivo che riproduce immagini. E se non siamo in grado di decodificarle, restiamo in balia di questo tipo di comunicazione. Ma penso sia necessario anche per rivitalizzare il racconto cinematografico rispetto a un’evidente avanzata dello storytelling televisivo, di eccellente qualità ma comunque diverso. Più attiviamo novità, diversità, più innestiamo freschezza nel cinema e quindi gli diamo un futuro. Oggi c’è un cinema consolidato, fatto di grandi autori che nessuno mette in discussione, ma statico. Bisogna innestare nuova energia e dargli spazio, come fa non solo la SIC ma in generale le sezioni collaterali del festival.
E, tra le altre cose, è emerso un cinema che ha definitivamente oltrepassato gli steccati tra genere e autorialità, documentario e finzione…
Sicuramente. Qualcosa di questo tipo è già successo in passato, e oggi il superamento delle barriere dovrebbe essere consuetudine. Registro in particolare tanto cinema che parte dal reale ma poi inventa nuovi modi di raccontare. Abbiamo avuto quattro documentari, ma sarebbe ancora meglio chiamarli “non-fiction”, con forme narrative diversissime tra loro. E sono film veramente per tutti, senza risultare ostili agli spettatori. Infatti tra le persone che mi fermavano fuori dalle proiezioni per comunicarmi le loro impressioni, c’erano appunto molti giovani ma anche persone mature e pubblico generico.
E c’è anche il giovane cinema italiano dei corti di SIC@SIC…
Sì, e mi commuove che quest’anno Alain Parroni, Simone Bozzelli e Tommaso Santambrogio abbiano presentato fuori dalla SIC i loro primi lungometraggi. All’inizio i corti di SIC@SIC erano più classicamente narrativi, adesso osano, sperimentano. Non solo: ho capito che tra gli autori selezionati quest’anno si è creata una famiglia, una comunità di persone che si conoscono, si stimano, lavorano insieme. Ed è anche una prospettiva molto incoraggiante per il cinema italiano del futuro.
L’ultimo giorno della SIC è dedicato a un Evento speciale, il doc Passione critica, che rievoca una stagione, tra anni ’60 e ’70, segnata dalla militanza politica e culturale, dallo scambio continuo di idee anche con gli autori. Si può recuperare qualcosa di quella stagione nel mutato contesto di oggi?
Penso che stiamo facendo proprio questo: con altre forme e altri linguaggi solo apparentemente meno “impegnati” o impegnativi. Da quando sono alla SIC cerco di avvicinarmi al pubblico, di parlargli ma mantenendo un’identità, quella di critica, di cui sono orgogliosa. Lo stesso vale per la politica: i film di quest’anno sono pop, ma sono anche politici. In Malqueridas ad esempio c’è una riflessione sul senso politico dell’immagine, ma senza ideologie. A me non interessano le ideologie o i partiti, m’interessa il pensiero politico. La politica è bella, ed è dappertutto, fa parte della nostra vita. Passione critica è un evento congiunto con La Biennale e le Giornate degli Autori, e anche questo mi riempie di orgoglio, perché ragionare sulle cose è una battaglia comune. E quella tra critici e autori è una discussione fertile che deve continuare.
Ma secondo lei, perché quest’anno a Venezia c’erano così tanti vampiri? Anche alla SIC, con The Vourdalak…
È una metafora molto potente, e forse c’è un po’ di oscurità nel clima di oggi, per tante e complesse ragioni. Quindi da un lato quest’atmosfera gotica la respiriamo e la temiamo. Credo che nel presente ci siano figure “vampiresche” molto evidenti e, ahinoi, ci sono già state. Tra l’altro, i vampiri visti alla Mostra sono tutti molto diversi tra loro: ci sono quelli “umanisti” che si sentono in colpa e ci sono quelli che si mangiano tra loro in una linea “maschile”. Ho definito The Vourdalak un film contro il patriarcato, e mi piace l’idea di un percorso dove una donna, una figlia, si apre a un’altra possibilità.